Trilogia del Perbenismo #1 • `Divorzio all’Italiana` di Pietro Germi

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Art 587 – Codice Penale
Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, 
nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato
d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia,
è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena
soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte
della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la
figlia o con la sorella

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Non sono passati molti anni da quando la legge italiana costituiva il più efficace rimedio per lavare le coscienze nei casi di “delitti d’onore”: un uomo si scopriva tradito e il codice penale gli consentiva di rivalersi sulla moglie fedifraga, né più né meno. Ammazzare la moglie, la figlia o la sorella perché colpevoli di «illegittima relazione carnale» era del tutto comprensibile , anzi, indispensabile per chi volesse cancellare il peso dell’onta sul buon nome della propria famiglia. Tre anni di carcere, sette al massimo, ed ecco che il marito, il padre o il fratello potevano tornare liberi, ripuliti e rispettati. Che poi quegli stessi uomini fossero “padri-padrone” o compagni violenti a nessuno importava: nessuna legge tutelava le donne, mentre massima cura era riservata nel preservare la misoginia più barbara e cieca.

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D’altronde, il progresso non è mai progressista e spesso è lo stesso desiderio ad aprire la strada al delitto. Tutto questo riporta alla memoria una scena in bianco e nero, la fotografia di un’Italia di cinquant’anni fa. La banda musicale intona una solenne marcia funebre, mentre il barone Ferdinando Cefalù cerca invano di districarsi fra i condolenti per baciare e stringere a sé la giovane Angela. Lui è Marcello Mastroianni, lei una Stefania Sandrelli appena sedicenne, che recitano sotto lo sguardo attento di Pietro Germi. Tutti abbracciano la ragazza che sta piangendo la morte del padre, senza sapere che è lei stessa la causa della sua dipartita: il poveretto, infatti, è schiattato dopo aver scoperto casualmente la tresca della figlia con lo stesso barone Fefé, che è anche il cugino. Egli  tuttavia è sposato e non sa più cosa architettare per liberarsi dalla pedante moglie e coronare così il suo sogno d’amore con la bella Angela. La legge italiana dell’epoca, infatti, non prevede la separazione; pertanto non c’è altra strada per Fefè Cefalù che architettare un “divorzio all’italiana”, ossia passare pubblicamente per cornuto ed, infine,  in virtù dello stesso codice penale, ammazzare la moglie in nome del tanto agognato onore.

L’uscita nelle sale di `Divorzio all’Italiana `, nel dicembre del 1961, segnò una tappa fondamentale non solo nella carriera di Pietro Germi, ma anche nella storia del cinema del Bel Paese: per molti critici, infatti, la pellicola del regista genovese può essere considerata la capostipite di quel fortunatissimo filone che sarà poi definito “commedia all’italiana”, capace di caratterizzare per anni e in modo indelebile il volto di una nazione e di una cultura.

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Di umili origini, Pietro Germi nacque a Genova ormai cento anni fa, il 14 settembre del 1914. I suoi genitori,  persone povere, non istruite ma oneste, saranno fonte d’ ispirazione primaria per la prima parte della carriera del figlio, che attingerà ad episodi e ricordi della propria infanzia per comporre una filmografia all’insegna della gente umile e dell’Italia dei margini. In realtà, anche dopo il successo, Pietro Germi non frequenterà mai gli ambienti snob della sua epoca e si terrà  lontano da ogni forma di sterile intellettualismo soprattutto nel suo lavoro, non considerandosi un autore ma un semplice “narratore di storie”. Forse fu proprio questo atteggiamento dimesso a portare gran parte della critica a disinteressarsi delle sue opere, non annoverandolo mai fra i grandi registi del cinema italiano ma, al contrario, relegandolo fra i minori, alla stregua di un buon artigiano.

Fino ai primi anni ’60, in realtà, i film di Germi erano ancora fortemente legati a una cifra stilistica drammatica, in gran parte debitrice della tradizione neorealista. Esempi sono opere come `Il cammino della speranza` del 1950, incentrato sulla vicenda di un gruppo di minatori siciliani, che valse al regista la popolarità internazionale; oppure `Il Ferroviere` del 1955, dramma intimista in cui Germi cerca di assecondare il suo sogno primario: diventare un grande attore prima ancora che un grande regista. Tuttavia, per quanto si trattasse di pellicole di altissima qualità, nessuna di esse fu mai in grado di segnare la carriera e la vita personale di Pietro Germi così profondamente quanto l’uscita nei cinema del suo vero capolavoro.

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Ormai sbiadito lo slancio neorealista, all’alba degli anni ’60, l’entusiasmo del miracolo economico spingeva l’Italia a proiettare nelle sale le storie di un paese in rinascita, ma ancora incapace di scrollarsi di dosso tutto il proprio carico di ingenuità e di credenze ataviche. Era un cinema in cui gli italiani imparavano a guardarsi e a riconoscersi a vicenda, ridendo e al contempo prendendo coscienza dei propri tic, dei propri comportamenti paradossali e, soprattutto, di tutte le storture di una società ancora fortemente legata a pregiudizi condivisi. In questo quadro, `Divorzio all’Italiana` travolse l’opinione pubblica dell’epoca, guadagnandosi perfino  un Oscar per la migliore sceneggiatura originale, e consacrando Pietro Germi come acutissimo recettore di realtà, capace, nella propria sensibile misantropia, di cogliere nel presente i semi di un tempo in divenire.

Ispirato ad una lettera che Germi stesso ricevette, in cui un signore siciliano arrivava a confidargli i propri problemi di cuore, il film doveva inizialmente avere un’intonazione tragica, in linea con lo stile del regista e perfetta per comporre il ritratto ironico e al contempo feroce di una mentalità arcaica e ipocrita. Tuttavia, una volta iniziata a scrivere la sceneggiatura, Germi  si accorse di come la storia assumesse su carta toni grotteschi e ridicoli, che male si amalgamavano con la vicenda di sangue che egli si apprestava a raccontare. Il delitto d’onore era infatti una stortura tutta italiana, di cui Germi si vergognava e che necessariamente voleva denunciare; eppure la vena comica risiedeva proprio lì, in un tema non tanto di costume quanto di mentalità:  il sesso era stato confuso con l’onore e si era ritenuto lecito avvallare tale confusione addirittura con un articolo di legge. Se il divorzio sarebbe arrivato in Italia dieci anni dopo e l’articolo sul delitto d’onore abolito solo nel 1981, è facile a questo punto comprendere la portata profetica di un film così anteriore rispetto alla storia autentica.

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`Divorzio all’italiana` è dominato da un tempo dilatato, quieto e inarrestabile, come il caldo feroce dell’estate meridionale. Lo sfondo è infatti l’arido e accecante panorama siciliano della fittizia Agromonte, con le sue piazze semivuote bruciate dal sole, attraversate solo dai rintocchi di mille campanili e dalla morbosa curiosità di sguardi nascosti dietro a giornali e serrande. Il protagonista delle vicende è invece un barone, Ferdinando Cefalù (Marcello Mastroianni), uomo ancora piacente, ricco di promesse non mantenute, eppure appesantito dall’atmosfera stagnante della realtà di provincia e alla vana ricerca di un modo per coronare il proprio salvifico sogno d’amore. Tale sogno ha il volto soave e meraviglioso di Angela (Stefania Sandrelli), adolescente tremula dagli occhi di cerbiatto, oggetto di un sentimento intenso e viscerale, ma di fatto irraggiungibile a causa d’ innumerevoli barriere morali e vincoli sociali.

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Dopo un abilmente condotto rendez-vous con Angela, in cui un mazzo di fiori primaverili appena colto funge da conferma dei reciproci desideri, Fefè Cefalù capisce che l’unica via percorribile per la propria liberazione è l’omicidio dell’assillante moglie Rosalia (Daniela Rocca), con cui è sposato  da anni e della quale non sopporta più la morbosità, tanto da provarne quasi repulsione fisica. Il tormentone di Rosalia «Fefè, dove sei?», diventerà così il tarlo che renderà il barone esasperato fino alla follia e che lo condurrà, in una vicenda tragicomica ai limiti del paradossale, a compiere  l’uxoricidio.

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L’allucinazione è fondamentale nel contesto grottesco della commedia all’italiana ed è proprio così che Fefè appaga il proprio desiderio di possedere la cugina, progettando al contempo l’eliminazione della moglie. Le fantasie omicide che ne derivano sono cupamente geniali nella loro assurdità, come quelle che vedono Rosalia sprofondare nelle sabbie mobili oppure essere lanciata nello spazio su un razzo sperimentale. Tuttavia questi capricci selvatici sono pura evasione, perché Ferdinando è, prima di tutto, un educato e paziente gentiluomo, almeno secondo le apparenze. E’ così che, per coincidenza fortuita, egli prende nota proprio di quell’articolo 587 del codice penale, che permette al coniuge un ampio margine di manovra nel dispensare la propria fatale giustizia sul partner colto in tradimento carnale, soprattutto nel caso in cui l’avvocato difensore sappia perorare la causa con vivace e operistico flair.

Ferdinando Cefalù diventa in questo modo artefice e allo stesso tempo vittima degli eventi che si susseguono inarrestabili e che continuano sempre più a complicarsi, in una serie grottesca di grandi e piccole esplosioni narrative. Marcello Mastroianni offre una performance che si blocca nella mente dello spettatore come una delle caratterizzazioni più comiche e ingegnose della sua intera carriera. Raramente, infatti, il cinema ha visto un assassino deliberato così elegante e soave, così condiscendente nella sua noia, così a fondo e pateticamente avviluppato nei lacci soffocanti di una donna sposata anni prima solo per i fianchi sensuali e torniti. Le palpebre di Fefè si socchiudono con superbia in uno stato di perenne ennui, dissipato unicamente dagli sguardi libidinosi che egli spesso e volentieri riserva alla propria cugina adolescente.

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Dall’altra parte, infatti, c’è Angela: così affascinante agli occhi di un uomo insoddisfatto, così conforme ai capricci di un’immaginazione lussuriosa, capace di riaccendere il desiderio e l’ego anche di un marito frustrato da tempo immemorabile. E’ difficile contenere il proprio anelito di felicità, quasi impossibile staccare gli occhi dal fruscio della gonna della fanciulla mentre passeggia per la piazza, seguita dallo sguardo indagatore delle anziane custodi, che l’accompagnano e che sanno esattamente cosa si nasconda nel cuore degli uomini siciliani, perennemente presenti nei luoghi pubblici.

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I personaggi di Pietro Germi si muovono come pupi siciliani, bloccati nei propri cliché e nel proprio conformismo, incapaci tuttavia di controllare le correnti sotterranee del sentimento e della passione. E’  proprio qui che la struttura narrativa di `Divorzio all’italiana` rivela la sua assoluta originalità e risulta vincente nel suo sguardo spietatamente satirico: è lo stesso reazionario barone Cefalù, infatti, colui che solleva il velo impolverato di una moralità castrante e punitiva, che da sempre –e con scarsi risultati- tenta di frenare le pulsioni recondite o il furore degli istinti. Germi non permette allo spettatore di identificarsi con nessuna delle personalità in scena, ma, al contrario, lo obbliga a seguire Don Fefé e a fare quasi il tifo per lui. Per paradosso, l’unica creatura che alla fine sembrerà dotata di una qualche umanità sarà proprio l’ingenua Rosalia che, pur con i suoi modi dolciastri e appiccicosi, legge qualche libro, ascolta Donizetti e si interroga sull’esistenza.

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La regia asseconda le evoluzioni della narrazione con assoluta e disinvolta genialità, imprimendo al racconto un’accelerazione via via sempre maggiore; il ritmo del montaggio cresce fino a diventare una frenetica rincorsa, mentre le inquadrature giocano abilmente intorno alla gravosa fisicità dei personaggi, patetici e sudaticci, con una violenza di stile mai raggiunta prima. Pietro Germi si libera di qualsiasi armatura formale e utilizza senza remore elementi nuovissimi per il suo cinema come il flashback, il fast forward, la sospensione della voce fuori campo e i sogni assassini di Mastroianni, che interrompono la scena con l’efficacia di uno spot televisivo. In questo modo, egli accompagna con prontezza il fronteggiarsi continuo fra individuo e società, immergendosi senza indugio nelle zone più oscure di una provincia siciliana addormentata e opprimente, e trasmettendo con essa un pervasivo senso di spossamento, di claustrofobia e di amarezza.

La Sicilia raccontata da Germi è infatti un’isola barocca e immacolata, un mondo ancestrale intriso dell’eleganza e della dignità dei suoi abitanti, resi sicuri dalle proprie sacrosante e immutabili consuetudini. Dal continente giungono talvolta lontani echi di modernità e di cambiamento, che però a fatica riescono a fare breccia nella tradizionalista ed ermetica comunità di Agromonte.

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Aldilà del folklore e dei mandolini, tuttavia, tale rappresentazione è ben presto in grado di diventare molto di più, ossia la caricatura perfetta di una nazione intera, di quell’Italia che ancora oggi è costretta a subire i contraccolpi di una legislatura anacronistica e l’influenza di una Chiesa capace di investire ogni ambito della sua vita sociale e politica. Il codice d’onore utilizzato a piacimento diventerà quindi per Germi solo una scusa, un pretesto fra tanti in grado di rappresentare la mostruosità di un mondo sempre più simile ad un teatro, in cui ognuno è costretto di giorno in giorno a portare sulle spalle il peso del proprio gravoso e immodificabile ruolo. Sarà così che le corna si potranno punire con l’omicidio, perché attentano alla fissità della società, e il desiderio potrà essere raggiunto solo capovolgendo la propria condizione iniziale: il mondo è bloccato e la Sicilia rappresenta l’anti- dinamismo per eccellenza.

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Nonostante tutto, però, Pietro Germi dimostra di saper amare quella terra, di essere follemente attratto da un mondo così estraneo al suo universo di valori, tanto da rappresentarne il linguaggio e le convenzioni familiari con l’attenta fedeltà del nativo. Egli non risparmia nessuna critica ai siciliani, il suo atteggiamento è acre e inflessibile contro le regole e le tradizioni che ritiene insensate, eppure il suo sguardo dietro la macchina da presa è anche affettuoso, come quello del barone Cefalù mentre osserva il proprio paesaggio natale, arido e inospitale, ma che alla fine non può fare a meno di amare.

Ciò è tanto vero che, non considerando terminato il proprio lavoro, qualche anno dopo Pietro Germi ritornerà proprio in Sicilia per ambientarvi il suo film successivo, `Sedotta e Abbandonata`, in cui, oltre a Stefania Sandrelli, ritorneranno anche gli stessi ambienti e gli stessi intenti, traslati tuttavia su un asse più femminile dell’indagine di costume. Così, narrando di quell’isola bellissima ed immobile, Germi sarebbe stato allo stesso tempo capace di raccontare la parabola di un’Italia intera, con i suoi drammi nascosti, i suoi desideri inappagati e quella maledetta ipocrisia capace di distruggere una vita.

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Si è dunque giunti al finale: anche quello tanto desiderato di `Divorzio all’Italiana` è destinato ad arrivare, ma sempre nel segno dell’impossibilità di aggirare le convenzioni e di trovare un accordo fra regole sociali e desiderio di libertà, in un tempo in cui due culture si sono sovrapposte senza possibilità di conciliazione. Angela, ormai in stabile compagnia di Fefè Cefalù, viaggia con lui su una barca ma, proprio mentre si trova a baciare appassionatamente il suo tanto desiderato compagno, non disdegna di farsi accarezzare il piede dal marinaio al timone. Ecco che di nuovo, in ultima battuta, Germi riapre il tema del tradimento, del desiderio perennemente insoddisfatto, riavvolgendo il nastro del suo film all’infinito e vanificando qualsiasi possibilità di poter intravvedere una morale almeno in parte consolante.

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Quello che Pietro Germi lascia in eredità allo spettatore, in realtà, è un potente contravveleno, capace di decifrare l’anima di un paese gattopardesco, in cui tutto sembra cambiare salvo poi rimanere costantemente immutato. Ogni emancipazione, infatti, cammina per volontà di un arbitrio e, alla fine dei giochi, è sempre la parte più retriva della società a farsi carico delle trasformazioni. E’ così che a scardinare la sacralità del matrimonio ci penserà un impomatato barone, mentre nella sezione del PCI i compagni chiamati ad «affrontare il secolare problema dell’emancipazione della donna, così com’è stato affrontato dai nostri confratelli cinesi», interrogati riguardo la baronessa Cefalù, scappata di casa per affermare il proprio diritto alla felicità, ad una sola voce sentenzieranno: «Bottana è!».

E’ così che il mai invecchiato capolavoro di Germi rivela una malattia tutta nostrana, di cui ancora oggi paghiamo le amare conseguenze: quelle delle conquiste civili, ottenute appunto “all’italiana”. La mutazione dei costumi non ha partito e il cambiamento radicale non porta con sé ideali. L’egoismo, alla fine, è il vero motore di ogni cosa nella patria di Nicolò Macchiavelli, per cui inevitabilmente saranno i più agguerriti nemici della rivoluzione a mettere in pratica la più potente e duratura sovversione.

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