In Europe With Woody #3 • `Midnight in Paris`
«Non si può ripetere il passato?
Ma certo che si può…»
~`Il Grande Gatsby`, Francis Scott Fitzgerald

Alcuni uomini hanno in sé qualcosa di superfluo, un sogno o un desiderio che di continuo e inutilmente li tormenta, non facendoli mai paghi di nessuna condizione e lasciandoli sempre incerti del proprio destino. Vi è quindi chi, magari per semplice sfogo, decide di trasformare tale inesplicabile superfluo in un mondo fittizio, dotato molto spesso di proprie regole ferree e impossibili da trasgredire, che ha senso e valore soltanto per essi, ma di cui comunque non sono in grado di accontentarsi. Cosicché, senza posa e smaniosamente, ecco che arrivano di nuovo a mutare e a rimutare tale realtà, complicandola e dispiegandola in maniera potenzialmente infinita, ma ottenendo come risultato solamente quello di accrescere il proprio tormento e il proprio disinganno. Perché, sì, un sogno o un’illusione possono talvolta essere la sola via di fuga, dalla quale magari far dipendere la propria sopravvivenza… Ma se esercitati con poco giudizio, possono infine arrivare ad imprigionare per sempre.

Parlando di sogni, qualunque artista o scrittore almeno una volta nella propria vita si è sicuramente ritrovato a desiderare di compiere un viaggio indietro nel tempo alla ricerca della propria Golden Age, ossia di quel periodo storico capace di donare nuova linfa ad un’ispirazione latente. Per un regista come Woody Allen, nessuna epoca più della frizzante Parigi degli anni ’20 potrebbe essere adatta a risvegliare le proprie Muse riluttanti, le quali trarrebbero di certo un gran giovamento dal ritrovarsi a sorseggiare un bicchiere di assenzio insieme ad Hemingway a Les Deux Magots, oppure a cenare a base di choucroute alsaziana con Picasso a La Rotonde. Immaginate che conversazioni! Tutto questo in `Midnight in Paris` diventa improvvisamente possibile per il protagonista Gil Pender, un disincantato sceneggiatore hollywoodiano alla disperata ricerca della propria vena artistica. Ma sarà davvero un sogno destinato a durare?

Woody Allen dimostra di amare le città ancora più di quanto ami le persone: New York rimane senza dubbio la sua principale fonte di ispirazione, ma una qualsiasi metropoli dalle luci scintillanti può allo stesso modo aspirare a diventare la valida protagonista di una sua pellicola. Ed è così che, dopo aver rappresentato la crudele Londra borghese e i profumi voluttuosi di una Barcellona dorata, egli giunge a Parigi, la città dell’amore per eccellenza, tappa imprescindibile per il suo tour cinematografico della Vecchia Europa. Come in `Match Point` e in `Vicky Cristina Barcelona` , tuttavia, `Midnight in Paris` non solo vuole rendere omaggio a una capitale europea e alle sue bellezze architettoniche e culturali, ma, in particolare, mira a dimostrare l’intrinseca capacità di trasformazione che una città del genere è in grado di esercitare anche sul turista più sprovveduto. Woody Allen ammanta dunque la propria opera con lo stupore eccitato di una terra da sempre sognata, rendendola la manifestazione incantata di una gioia bambinesca; i demoni ossessivi del suo ultimo cinema vengono chiusi a chiave in soffitta, poiché la parola d’ordine qui vuole e deve essere soltanto leggerezza. Ma la Parigi di Woody Allen è anche un luogo abitato da nevrosi e fantasmi, rimpianti e stati d’animo che ondeggiano fra le pieghe del tempo e che, malgrado tutto, sono sempre pronti a riemergere.
«E’ incredibile! Al mondo non esiste una città come questa e mai esisterà! […] Riesci a immaginarti quanto bella da morire sarebbe Parigi sotto la pioggia?».

Gil Pender è incantato da Parigi e le sue prime battute sono frutto di un perpetuo e immutabile stupore. Egli non fa altro che tradurre in parole il pensiero del suo autore, che infatti apre la propria pellicola con una lunga sequenza di ritratti, immortalando in sfumature dorate i più suggestivi scorci della capitale francese. Impossibile, a questo punto, non stabilire un confronto con un’altra apertura analoga, la gloriosa sinfonia in miniatura con cui il regista newyorkese inaugurava quello che forse ad oggi rimane il suo più grande capolavoro, `Manhattan`. Mentre il film precedente costruiva un crescendo al cardiopalma sulle immortali note di `Rhapsody in Blue`, `Midnight in Paris` sceglie invece le più suggestive volute sonore di `Si tu vois ma mère` suonate da Sidney Bechet, uno dei tanti artisti espatriati a Parigi negli anni ‘20 per godere di quell’aria fulgida di creatività e fascino.

Le parole non servono più: è ora di declinare l’amore e il ritorno di fiamma all’insegna di una comunicazione non verbale. Quel trasporto che in `Manhattan` faticava a trasformarsi in verbo, qui muta solo in puro e ipnotico non detto. Nel proprio delicato shuffle attraverso i panorami parigini, infatti, Woody Allen ricerca la scintilla di romanticismo, il gioco di luci perfetto e la disposizione di forme e di colori capaci di evocare immediatamente nello spettatore l’immagine della città simbolo dell’Impressionismo e dei nostalgici ritratti di Eugène Atget. I luoghi iconici d’altronde ci sono davvero tutti: Montmartre, l’Opéra, Place de la Concorde, la Bastiglia, l’Avenue des Champs-Elysées e, ovviamente, la Tour Eiffel. Si tratta di una vera e propria lettera d’amore alla città, seria e impalpabile, che sembra voler dire: “Sì, questi sono tutti luoghi comuni, ma sono diventati tali perché Parigi è davvero la più bella città della Terra!”.

Come sempre in Woody Allen, tuttavia, la bellezza non si dispiega mai separata dal buon gusto. Ed ecco infatti che, dopo un primo fuggevole elogio a `Le Ninfee` di Monet, lo spettatore viene catapultato all’interno di un albergo di lusso dalle pareti color crema, decorate con specchi enormi e arabeschi dorati, attraversato da una giovane coppia americana altrettanto ricca e bella. Lui, Gil Pender (Owen Wilson), è uno sceneggiatore hollywoodiano di pellicole d’intrattenimento, innamorato delle bellezze “pareeshun” al pari del buon Woody; la fidanza Inez (Rachel McAdams), invece, è una bionda pragmatica di successo, avente per genitori due Repubblicani convinti – mai un buon segno nei film di Allen – e il simbolo del dollaro inciso nell’anima.

Il rapporto di coppia fra i due potrebbe tranquillamente costituire un film a parte: tanto Gil adora Parigi, quanto Inez la odia. Del suo soggiorno europeo Gil vuole assimilare ogni cosa, esplorando e nutrendosi di ogni singolo scorcio capace di pararsi davanti ai suoi occhi, mentre Inez e i suoi genitori rappresentano il peggior tipo di turista possibile: detestano i parigini e la cultura francese, bevono e mangiano senza assaporare e non hanno alcuna intenzione di permettere alla città di ampliare la loro visione del mondo o di rivoluzione il loro superficiale stile di vita. Se da una parte lui rumina pensieri e coltiva le sue Muse, dall’altra lei si limita ad acquisire informazioni dozzinali e a visitare le attrazioni più celebrate. Per quanto possibile, la situazione peggiora ulteriormente con la comparsa di Paul (Michael Sheen), un vecchio compagno di college di Inez, ma anche un pedante tuttologo che non perde occasione per condividere la propria boriosa conoscenza con chiunque gli capiti a tiro.

`Midnight in Paris` arriva così fin dalle prime sequenze a flirtare con un tema caro a Freud, “il disagio della civiltà”, che per Allen corrisponde a un preciso e disturbante malessere del mondo moderno. Non è infatti un caso che al centro della sua storia vi sia proprio uno sceneggiatore in crisi come Gil, un uomo di cinema intrappolato nelle maglie dell’industria hollywoodiana ma che vorrebbe anche buttare tutto all’aria, intonare un veloce e liberatorio “addio” agli script fatti confezionare su misura dagli Studios e mettersi a scrivere il suo romanzo, con un piede nel presente ma corpo e anima nel passato. Ha solo bisogno di Parigi, la vera Parigi, per trovare la propria ispirazione latente; egli, infatti, si rammarica profondamente di non essersi trasferito in gioventù nella capitale francese, l’unico luogo in cui forse avrebbe potuto curare la sua perenne impressione di essere nato nel secolo sbagliato.

Il Gil Pender di Owen Wilson, con il suo sguardo malinconico e il modo affrettato e esitante di parlare, risulterà sicuramente familiare a chi da tempo è abituato a frequentare le pellicole di Woody Allen. Egli, infatti, nonostante il ciuffo di capelli biondi e gli occhi color del cielo, rappresenta un perfetto alter ego del regista, uno dei suoi peculiari personaggi affranti e disillusi, sempre animati dal desiderio di essere qualcosa di diverso da ciò che sono stati fino a quel momento. Nonostante questo, va detto che Owen Wilson è capace di portare qualcosa di nuovo nell’universo di Allen, interiorizzando i suoi dialoghi e rallentando il ritmo delle battute fino ad adattarle al suo tipico tono cadenzato e nostalgico, stemperando così gli accenti più passivi-aggressivi della sceneggiatura. E’ davvero uno spasso, in proposito, osservare il candore e la purezza di sguardo con cui Gil arriva a pronunciare i giudizi più spietati, come quando, con espressione cristallina, definisce il padre della fidanza Inez un “lunatico demente” per il suo cieco sostegno al partito repubblicano. Tuttavia, in Gil vi è anche una titubanza latente nel seguire i suoi impulsi profondi, un senso persistente di inadeguatezza che lo porta a ritenere che la fidanzata e i rispettivi genitori, forse, potrebbero proprio avere ragione.

Fino a questo momento, infatti, Gil ha optato per tutto quello che il mondo esterno ha continuato a ripetergli essere indispensabile, ossia la fama, la fortuna e un lavoro stabile, per quanto insoddisfacente. Invece che liberarsi dalla gabbia dorata che lui stesso si è costruito, Gil preferisce così rifugiarsi nei sogni, immaginando quanto la sua vita potrebbe essere stata felice se vissuta nella Parigi degli anni ’20, che egli considera la vera età dell’oro per il mondo dell’arte, della letteratura e della cultura in generale. D’altronde, come il vanaglorioso Paul non manca di sottolineargli, egli è inguaribilmente affetto da “Golden Age Thinking”, ossia il principio per cui il tempo passato è inevitabilmente migliore del presente. Si tratta però del «fallimento di un’immaginazione romantica», perché «la realtà è che la nostalgia è negazione», il rifiuto di un presente troppo doloroso.

Una notte, stanco di difendere la propria roccaforte spirituale contro la pedanteria da un lato e il becero conservatorismo dall’altro, Gil si allontana dalla fidanzata e dagli amici per vagare solo nelle strade di Parigi, all’inseguimento della propria immaginazione. Ovviamente finisce col perdersi, ma è proprio in questo momento che accade il miracolo: seduto sulla scala di una viuzza appartata, Gil ode le campane della mezzanotte ed ecco che, all’improvviso, davanti ai suoi occhi compare una Peugeot d’epoca, con a bordo una pittoresca combriccola di giovani vestiti in abiti appariscenti, che gli offrono subito di salire inondandolo di risate e champagne.

La destinazione a cui Gil viene condotto è un party a tema anni ’20, ma tutto è assai più sorprendente di ciò che sembra all’apparenza. Infatti, ben presto Gil si accorgerà di non essere semplicemente arrivato a una festa singolare, ma di essere direttamente piombato nel passato da lui tanto desiderato, completo di smoking, cocktail e boa di piume! Cole Porter (Yves Heck) è infatti proprio lì, seduto al pianoforte a cantare `Let’s Do It`, mentre Gil si trova a stringere la mano e scherzare con gli amabili Francis-Scott e Zelda Fitzgerald (Tom Hiddleston e Alison Pill). In un crescendo di meraviglia e incredulità, Gil verrà poi condotto al Polidor, dove seduto al tavolo a bere whisky troverà nientemeno che Ernest Hemingway (Corey Stoll), il quale a sua volta gli prometterà di portare il suo manoscritto all’attenzione dell’assoluta madrina dell’arte moderna, Gertrude Stein (Kathy Bates). Gil è entusiasta come un bambino il giorno di Natale, ma non fa in tempo ad allontanarsi per un momento che, al posto del delizioso bistrot notturno, ritrova nient’altro una squallida lavanderia a gettoni.

Le campane di mezzanotte che, scoccando i loro rintocchi, conducono Gil nel passato, ricordano sorprendentemente i campanelli legati al calesse che in `Belle de Jour` Luis Buñuel utilizzava per segnare il passaggio da un tipo di rappresentazione a un altro. In effetti, non è la prima volta che Woody Allen giunge a fondere nelle sue pellicole mondi letterari o cinematografici con la realtà: basti pensare al sorprendente `Amore e Morte`, in cui il regista conduce una danza esilarante attraverso i grandi successi della letteratura russa, oppure all’incantevole `La Rosa Purpurea del Cairo`, in cui un eroe del cinematografo anni ‘30 esce in carne ed ossa dallo schermo per conversare con l’ingenua cameriera Cecilia. E ancora `Stardust Memoires`, `Ombre e nebbia`, `Harry a pezzi`… L’elenco potrebbe continuare all’infinito.
Naturalmente Woody Allen non si preoccupa di spiegare la meccanica del viaggio nel tempo capace di condurre Gil negli anni ’20, tanto da non sottolinearla neppure con alcuna transizione o valorizzazione digitale. Al regista poco importa chiarire se quella che il suo protagonista si trova a vivere sia la realtà, un sogno, un’illusione, oppure l’allucinante postumo di una sbornia e, allo stesso modo, deve comportarsi lo spettatore. La sospensione di incredulità, d’altronde, funziona alla perfezione, e ci si trova semplicemente ad accettare che ogni sera Gil a mezzanotte venga condotto nel passato, ritornando poi ogni mattina al suo arido presente.

`Midnight in Paris`, così, dopo un inizio prosaico, arriva a trasformarsi in una favola dolcemente rapita, concepita e accarezzata con delizioso stupore. Gil, dal ruolo di impiastro nevrotico in cui è imprigionato nell’epoca presente, assume negli anni ’20 la fisionomia di un vero e proprio eroe romantico, impavido e sicuro di sé, accolto dai più celebri artisti del passato come un loro pari. Quello nel decennio ruggente è il suo personalissimo viaggio, ma è anche quello di Woody Allen, che coglie l’occasione per far sfilare davanti agli occhi dello spettatore il proprio variopinto pantheon di idoli e di fonti di ispirazione.

La ronde parigina del dopo mezzanotte arriva così a riempirsi di giganti della letteratura moderna e di artisti fenomenali, incastrati fra il bancone del bar, il fumo che crepita tutt’intorno e la bottiglia di vino sempre davanti a sé. La Parigi anni ‘20 evade dai libri di scuola, si spolvera per bene e torna ad essere la “festa mobile” a cui Allen restituisce corpo e sguardo, come in un balletto di spettri condannati a sparire alle prime luci dell’alba. Egli, tuttavia, arriva a concretizzare davvero il proprio inconfondibile genio nel momento in cui decide di rappresentare tutte le più grandi personalità del passato non attraverso un ritratto realistico o psicologicamente accurato, ma tramite la quintessenza di loro stessi, ovvero nel modo in cui Gil li ha sempre immaginati e idolatrati, con tutti i luoghi comuni e la caricature del caso. E’ così che vediamo Corey Stoll interpretare un audace Hemingway sempre intento a snocciolare massime virili sulla guerra o sull’amore, mentre un magnifico Adrien Brody dà vita e volto a Salvador Dalì, ossessivamente assorto nella contemplazione della figura del rinoceronte e pronto ad ogni occasione a sillabare il proprio nome con accento chorizo, quasi si aspettasse un applauso. Straordinari sono poi i momenti in cui Gil arriva attivamente a interagire con i suoi idoli del passato, ad esempio offrendo un valium come calmante a Zelda Fitzgerald, oppure suggerendo a un perplesso Luis Buñuel il soggetto per quello che diventerà uno dei suoi più grandi capolavori, `L’angelo sterminatore`.

Woody Allen, tuttavia, conserva ancora il proprio asso nella manica, che materializzerà davanti allo spettatore solo a metà pellicola, nella visione celeste e negli occhi di rugiada di Marion Cotillard. La splendida attrice francese ammalia Gil e gli spettatori interpretando Adriana, ossia il personaggio in cui Allen decide di incarnare la quintessenza della Musa ispiratrice, quella vanamente ricercata dal suo protagonista nel corso di tutta una vita, tanto da essere addirittura approdato nel passato pur di trovarla. La bellezza malinconica della Cotillard funziona alla perfezione nel dar voce e volto a un personaggio così insondabile e lucente da trascendere qualsiasi epoca storica: fittizia amante e modella per Modigliani, Braque e Picasso, Adriana arriva ad impersonare agli occhi di Gil l’immagine di una tormentata femminilità europea, accanto alla quale la convinta yankee Inez appare tanto romantica quanto può esserlo un nevrotico agente immobiliare di Beverly Hills. E’ naturale e prevedibile, dunque, che tra Gil e Adriana, notte dopo notte, arrivi a svilupparsi una platonica e impalpabile storia d’amore che, benché “senza tempo”, non sarà però senza fine. L’insoddisfazione per il proprio presente, infatti, prima o poi colpisce proprio tutti, e questo Woody Allen lo sa molto bene.

Adriana negli anni ’20 ha successo, è ammirata e corteggiata da chiunque, ma a differenza di Gil non vede la propria epoca come la vera età d’oro della storia di Parigi. Il decennio ruggente, infatti, ai suoi occhi è solo un presente noioso e insoddisfacente, che non può competere con i fasti e il fascino della Belle Époque, in cui l’Europa non aveva ancora conosciuto la devastazione della guerra, le trincee e le maschere a gas, e il Novecento prometteva ancora di essere il secolo del benessere e della bellezza. E’ così che, di nuovo, la città delle luci compie la sua magia: una notte, una carrozza trainata da due splendidi cavalli improvvisamente si arresta di fronte a Gil e Adriana, che grazie ad essa verranno condotti ulteriormente nel passato, proprio nella Belle Époque, con Parigi al culmine della sua bellezza, le ballerine di can-can ad incantare il Moulin Rouge e l’Impressionismo e l’Art-Nouveau intente a muovere i loro primi passi.

Tuttavia, nel momento in cui i nostri due protagonisti si ritroveranno seduti allo stesso tavolo di Degas, Gauguin e Toulouse-Lautrec, ecco che il cortocircuito temporale diventerà palese: i massimi artisti della Belle Époque, infatti, a loro volta affermeranno di considerare la propria età come piatta e deludente, aspirando invece con nostalgia a un passato ancora più remoto, ovvero al glorioso Rinascimento italiano di Michelangelo, Raffaello e Tiziano. Agli occhi di Gil e dello spettatore, a questo punto, tutto diventa finalmente palese, con la forza di un’improvvisa epifania: il passato, dice Gil ad Adriana, non può mai infatti dirsi veramente migliore del presente, avendo, al pari di esso, tanti aspetti positivi quanto negativi, ma è la nostra prospettiva a farlo sembrare tale. Solo la posterità è in grado di cogliere il vero valore delle epoche trascorse, molto spesso però arrivando ad idealizzarne i connotati, per poi contrapporli a un presente che, per antonomasia, apparirà sempre come insoddisfacente; perché la nostalgia, in fondo, è davvero una diversa forma di negazione e ora anche Gil è costretto ad ammetterlo.

`Midnight in Paris`, dunque, da commedia brillante e favola malinconica, nelle ultime battute cambia di nuovo volto, diventando una monografia cinematografica sul concetto di nostalgia, che per Woody Allen sembra inevitabilmente affliggere l’uomo occidentale, a prescindere dall’epoca a cui si ritrova ad appartenere. D’altronde, non è la prima volta che il suo cinema affronta un tema di questo tipo, essendo i suoi personaggi perennemente alla ricerca di una via che possa liberarli dalla delusione del presente o confortarli dalle fatiche della vita quotidiana, attraverso un ritorno al passato, appunto, oppure grazie all’amore e a un po’ di semplice fortuna. Tutti i protagonisti di `Midnight in Paris`, infatti, aspirano al passato: non solo Gil e Adriana, la quale infine deciderà di rimanere per sempre nella Belle Époque, ma addirittura la stessa Inez, così intenta ad arredare la propria casa di Malibu con mobili antichi dotati di dubbio gusto e, senza eccezione, di prezzi vertiginosi.

Tuttavia il concetto cardine del film, la nostalgia, alla fine diventerà più un mezzo che un fine, approdando a quella che si rivelerà essere la vera morale di tutto il racconto. Gil, infatti, viaggia attraverso il tempo non tanto perché interessato alle sue meccaniche o perché determinato a stabilirsi in un’altra epoca, ma per trovare la soluzione al proprio male di vivere, ossia l’incapacità di rendere ogni momento degno di essere vissuto, prevenendo così l’inevitabile miseria della vita ordinaria. La fotografia di Darius Khondji mira direttamente a sottolineare questo concetto, offrendo allo spettatore una sorprendente esperienza di contrasti estetici: i giorni del presente, ad esempio, risultano sempre dominati da una luce bianca, fluorescente e quasi accecante, l’esatto equivalente atmosferico di una sbornia; il passato, al contrario, è immerso in una costante caligine dorata e ogni ambiente pulsa dolcemente di un fumoso barlume ambrato. Non occorre quindi stupirsi nel constatare come Gil, sempre più abbacinato da ogni ritorno al presente, giunga infine al punto di rottura, scegliendo, per la prima volta nella sua vita, di colmare la propria frattura esistenziale e di perseguire solo ciò che è veramente in grado di renderlo felice.
`Midnight in Paris` si trasforma così sotto i nostri occhi in una terapia psicoanalitica perfettamente riuscita. C’è stato il dramma, c’è stata l’ipnosi, e poi ancora la trance e il trasferimento di chiamata da qualche altra parte nel tempo, a cavallo dei secoli. C’è stato il presente annebbiato da suoceri invadenti e future mogli che non capiscono, poi il passato con le sue splendide creature di carta mutate in carne e infine il trapassato remoto, con un’ultima avvolgente immersione fra i flutti di una Belle Époque magnificata dai rossi sgargianti del Moulin Rouge e dagli occhi attenti e infelici del maggior osservatore di quegli anni, Toulouse- Lautrec.

Il film arriva in questo modo a celebrare quella che è l’intima trasformazione del suo protagonista, che riesce infine a trovare il coraggio di fare ciò che qualsiasi persona di buon senso gli avrebbe consigliato: lasciare Inez nel suo mondo materialistico e inseguire il sogno di una vita più autentica. In realtà, a ben vedere, non sono gli anni ’20 o la nostalgia a cambiare veramente Gil e a permettergli di uscire dal suo solco utilitaristico, ma è Gil stesso a utilizzare il proprio rimpianto del passato per volgerlo in cambiamento. `Midnight in Paris`, proprio sul finale, arriva così ad riaffacciarsi sulla vertigine di `Manhattan`, quella in cui la giovane Tracy invitava Isaac Davis a provare a fidarsi della gente; un semplice consiglio, il suo, a sorridere, a crederci ancora. Vale la pena ricordare che all’epoca Tracy era interpretata da Mariel Hemingway. Sì, esatto, la nipote di Ernest.

Che cosa accada nella mente di Woody Allen rimarrà sempre un mistero, ma ciò che è chiaro è che attraverso `Midnight in Paris` egli è stato capace di creare una pellicola assolutamente affascinante e in grado di essere affiancata alle sue opere migliori. Tramite dispositivi fiabeschi e un realismo magico appuntato alla perfezione, questo film ci permette infatti di riflettere ugualmente su tutti i temi più cari e praticati dal regista, dal desiderio esercitato tanto come un balsamo curativo quanto come uno strumento di follia, fino alla paura della morte, che ci permette di dimenticare le nostre passate miserie giusto il tempo di perseguire vani piaceri che quasi sicuramente termineranno in dolore e rimpianto. Oltre a farci sorridere, infatti, questo geniale regista ci ricorda che vivere di sole illusioni non solo non è possibile, ma anche dannoso; eppure lo fa dolcemente, senza drammi o tragedie, in linea con la spensieratezza che aleggia su tutto il film. E se, nostro malgrado, non potremmo mai permetterci di passeggiare nelle incantate notti parigine degli anni ’20 con una bella ragazza e accompagnati dalla musica di Cole Porter, il saggio Woody ci insegna che possiamo almeno provare a farlo nella realtà.