BAUaffair #3 • `La Malavita`

 photo TITOLO 1_zpsykibkyum.pngI Cuori di Tenebra non si trovano soltanto fra le pagine dei libri. I Cuori di Tenebra, quelli più pesanti del peso stesso, quelli capaci di sprofondare al di sotto della superficie più esterna delle cose, possono infatti essere accanto a noi, o addirittura battere nel nostro stesso petto. Essi, in virtù della loro gravità, a fatica riescono a restare a galla, e si trovano così costretti a scendere nelle voragini della vita, fino a raggiungere ciò che si trova sotto. Di certo, se buttassimo una lenza, anche con l’esca giusta, non riusciremmo a ripescarli molto facilmente, anzi, probabilmente il loro invincibile peso ci trascinerebbe in basso nella loro stessa dimensione. Eppure, anche negli abissi, si può sempre trovare una luce in grado di rischiarare il cammino. E questo i Cuori di Tenebra, come i Baustelle, lo sanno molto bene.

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Esattamente sedici anni fa iniziava l’avventura discografica dei Baustelle: era il 2000 e sulle nostalgiche note del `Sussidiario Illustrato della Giovinezza`, una generazione di provincia ballava e cantava su note alienate e sincopate, mentre il tempo pareva essersi fermato, e l’età con esso. Qualche anno dopo `La Moda del Lento` aveva risvegliato le memorie dei primi appassionati e, sostituendo le chitarre elettriche con i moog e i theremin, aveva regalato loro perle musicali di pensieri decadenti e tragicità classica. Nell’ottobre 2005, invece, a due anni e mezzo dalla fatica precedente, usciva `La Malavita`, un album concettuale più che un concept album, qualcosa di profondamente italiano ma allo stesso tempo internazionale, moderno nelle premesse e ispirato nel songwriting, oltre che, come sempre, assolutamente letterario nei testi. Eppure, non si tratta di riconoscere in proposito un particolare merito: i Baustelle, in fondo, sono sempre stati così.

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Lo stile del gruppo di Montepulciano poteva dirsi già più che formato agli esordi e, nonostante le naturali evoluzioni legate al tempo, all’età e all’esperienza, ha sempre saputo mantenere inviolate le proprie linee guida. Passando dagli chansonnier francesi ai cantautori italiani, e unendo ad essi le sonorità di molti altri generi come l’elettronica, la new wave e la bossa nova, i Baustelle sono sempre riusciti a difendere la propria sensibilità e la propria scrittura, producendo pezzi che, nonostante la raffinatezza di certe soluzioni e le innumerevoli citazioni letterarie e musicali, hanno sempre conservato integra la capacità di arrivare dritti al cuore e alle orecchie degli ascoltatori. `La Malavita` estende esponenzialmente questa caratteristica, componendo allo stesso tempo quello che potrebbe essere definito come un ritratto su pentagramma, una crime story musicale dal sapore squisitamente italiano. Non a caso, poco dopo la sua uscita, la rivista `Rumore` definì l’album come «l’evento discografico più importante del decennio», una vera e propria svolta per la musica del Bel Paese, in particolare per quanto riguardava l’ambito indie e alternative.

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I Baustelle de `La Malavita` sono cresciuti: non narrano più di adolescenti alle prime armi, impegnati ad affrontare le conseguenze del sesso, dell’amore e della realtà sociale, ma, al contrario, raccontano di un mondo adulto e corrotto, non più libero e spensierato come la giovinezza, ma soggetto a regole ferree e a giudizi implacabili. In realtà, oltre al cambio di immaginario, sono tante le cose che questo disco porta con sé. Sono infatti ormai lontani i tempi dell’auto-promozione attraverso copie-pirata depositate nei luoghi più frequentati delle città, così come le registrazioni low-fi e l’orchestra sinfonica campionata: `La Malavita`, infatti, è la prima opera baustelliana a vantare la produzione di una grande major discografica come la Warner. Vietato parlare di “commercializzazione”, però, perché le melodie del gruppo di Montepulciano continuano a mantenersi ben lontane dalla cultura dei salotti televisivi, anzi, forse ancor più distanti che nei precedenti lavori.

Oltre alla produzione, `La Malavita` segna un’altra importante rottura per i Baustelle, ossia la dipartita di Fabrizio Massara, il piccolo grande genio dei suoni, colui che profondamente aveva inciso sull’anima alternative del gruppo, sintonizzandola su frequenze vicine ai Pulp e ai Blur. In occasione dell’uscita del disco, infatti, i Baustelle scrissero in proposito sul loro sito ufficiale: «Ci sono stati degli abbandoni, tristi e dolorosi, ma si sa, la vita è così. Se dovessimo stare a piangere su ogni amante lasciato al binario del treno, saremmo tutti disidratati o suicidati da tempo». Tuttavia, se da un lato senza Massara crolla una certezza nella formazione della band, costretta per questo a ripensarsi completamente dal vivo, dall’altro c’è invece Francesco Bianconi che sembra aver preso definitivamente il volo.

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Citazionista di buon gusto, musicista malato di vita e attore prima di tutto di se stesso, Francesco è una creatura fragile, sempre spettinata ma sempre elegante, che sembra quasi di veder galleggiare in una dimensione agli altri inaccessibile. Sempre educato e gentile, la sua voce, quando parla e quando canta, è allo stesso tempo lieve e profonda, salvo non far attenzione alle parole devastanti che pronuncia e che ci introducono in una prospettiva di totale nichilismo e disillusione. Ne `La Malavita`, Francesco Bianconi, sempre più cuore e testa di ciò che i Baustelle vogliono arrivare a rappresentare, esplode in quanto presenza vocale e cantautorale, e il suo Cuore di Tenebra buca la superficie del disco e si riverbera in ogni singolo pezzo che, inevitabilmente, reca (anche) la sua firma. La classe oltre i confini e i generi che da sempre ha caratterizzato questo artista riecheggia in particolare in ciascuno dei testi da lui composti, su tutti quelli in cui parla di Milano, la città che lo ha ospitato a ridosso della composizione dell’album, e in cui si trova imprigionato un po’ per lavoro, un po’ per costrizione, ma anche per amore. E’ così che i Navigli e Porta Ticinese si sostituiscono alle campagne di provincia, scenari tipici delle prime narrazioni baustelliane, rimanendo tuttavia sempre ancorate ad una visione pessimistica del mondo, al sesso, alla droga, al male di vivere, ma anche alla bellezza salvifica dell’arte e dell’amore.

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Parlando di sonorità, `La Malavita` è un disco piuttosto diverso dai precedenti, anzi, a tal punto lontano che ai primi ascolti la delusione è proprio lì, a portata di mano. Eppure, qualora il fan puritano fosse disposto a mettere da parte le prime impressioni, sarà senza dubbio destinato a vedere la propria percezione mutare completamente. `La Malavita`, infatti, è un’opera che coinvolge lentamente, dove i riferimenti retrò continuano ma su una direzione differente, e dove il debito verso gli anni Novanta inglesi è più soffuso, capace di lasciare spazio anche ad altri tipi di sonorità. Ciò che risulta più evidente è come, con l’abbandono di Massara, la parte elettronica sia stata di gran lunga ridimensionata in fase di arrangiamento, sebbene i pezzi sappiano comunque rimanere fedeli alla tradizione baustelliana nel suono e nella musicalità, senza mai per questo risultare ripetitivi o banali. Non mancano quindi le tipiche influenze beat, i tributi al cantautorato francese e italiano o alle colonne sonore cinematografiche, unite però ad un pop più vellutato, a tratti ispirato al Morrissey solista, dove frequenti sono anche gli arrangiamenti orchestrali, con tanto di archi giustapposti ai riverberi delle chitarre elettriche. D’altronde, proprio questa è la vera bellezza del pop dei Baustelle, un pop che non è mai semplice, istantaneo o usa e getta, ma al contrario è stratificato, consistente, con testi sempre e assolutamente necessari alla sua comprensione.

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La voce di Francesco Bianconi, che nei toni e nei modi sembra sempre più seguire la strada tracciata dai grandi maestri De André e Ciampi, si adagia perfettamente in questa nuova dimensione.  E’ così che la metrica del cantato scivola e si unisce perfettamente alle melodie romantiche e ai ritmi essenziali del disco, mentre le parole ritornano, singhiozzano e pulsano in testi sinestetici e spesso spietati nella propria crudezza. E mentre, dopo l’ennesimo ascolto, i titoli di coda scorrono sulla suggestiva sezione d’archi dell’ultimo brano, è un attimo comprendere come i pezzi de `La Malavita` costituiscano una narrazione tutt’altro che casuale, ma anzi come invece siano l’unica sceneggiatura di una stessa debolezza, quella che vive e prospera in tutte le undici esistenze a rischio protagoniste dei brani, vite violente e impietose, inevitabilmente molto meno “ye-ye” di quelle raccontate ne `La Moda del Lento`  e anche meno nostalgiche e spensierate di quelle del `Sussidiario`.

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In breve, `La Malavita` è il disco della maturità per i Baustelle, così come i precedenti erano stati l’affresco dei loro ardori e delle loro nausee giovanili. Bastano poche tracce, infatti, per capire come la new wave da liceale e le minigonne pallide delle svedesi in vacanza siano ormai un lontano ricordo, soppiantante invece da racconti sporchi, antiestetici, e vere e proprie storie da cronaca nera. Filo conduttore dell’album è infatti il montaliano “male di vivere”, capace di riflettersi in ogni particolare di un’opera senza dubbio molto meno bohémienne delle precedenti, ma più umana, e dove quasi sempre presente è il contrappunto emotivo fra una musica gioiosa e immediata e le liriche, costantemente intrise di pessimismo e di morte. E’ così che i Baustelle ci prendono per mano e ci accompagnano in un’Italia che ormai molti fanno finta di non vedere ma che – più o meno direttamente – si sono ritrovati a vivere: quella di paese, dei bar sporchi con le porte dei cessi sfondate, dei pazzi nei manicomi, dell’afa estiva pullulante di zanzare, ma anche della città più dolorosa e della periferia più malsana. Ben due su undici brani parlano di un suicidio (`La guerra è finita` e `Perché una ragazza di oggi può uccidersi? `), mentre molti altri sono dedicati ad esistenze deviate e minime, in preda alla società e in preda alle persone. Sono così narrate le vite di creature emarginate e indifese (`Sergio` e `Il corvo Joe`), di donne che uccidono (`Revolver`) o che subiscono le mode (`A vita bassa`), senza contare gli splendidi omaggi all’agrodolce Milano (`Un romantico a Milano`) o alla sterile e narcotica esistenza di provincia (`I Provinciali`).

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L’inizio è senza dubbio di quelli che non ti aspetti. Più o meno ispirato alle colonne sonore trash dei polizieschi italiani, `Cronaca Nera` è un minuto e mezzo di solo strumentale, epico e brillante, che, pur facendo intuire una svolta, guida gradualmente l’ascoltatore nel trapasso fra vecchie e nuove melodie, quasi fosse la naturale evoluzione dell’ `Arrivederci` che chiudeva il disco precedente. Interamente firmato da Rachele Bastreghi, `Cronaca Nera`, col suo suono retrò ma finemente elaborato, ci catapulta fin da subito in uno scenario ben preciso: l’Italia degli anni ’60, che nel ricordo si colora delle tinte giallo-ocra degli schermi televisivi di quel periodo. Il trionfo di synth e tastiere che ondeggiano nella parte centrale del pezzo ci sbatte senza tanti complimenti sopra una macchina della polizia, nel bel mezzo di un inseguimento, al fianco di un poliziotto in scala di grigi che guida come fosse un forsennato. La sinestesia di suono, immaginazione e memoria è efficacissima e si conclude in breve tempo in qualità di scorcio introduttivo, interrotto inaspettatamente dalla sferzata di chitarra che apre il brano successivo e che, questa volta per davvero, ci introduce in una traiettoria musicale ben diversa da quella a cui eravamo abituati.

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`La guerra è finita` è, infatti, la canzone che per i Baustelle arriva a coincidere con il cambio di rotta decisivo, capace di materializzarsi sotto forma di ripetuti riff di chitarra, in un giro di basso al limite dell’essenziale e nella maestosa apertura orchestrale del finale. Il tasto repeat del riproduttore non può fare a meno che battere a reiterazione su questo pezzo, capace di insinuarsi nella memoria dell’ascoltatore forte del suo arrangiamento in perfetto stile rock newyorkese e del suo testo che, senza troppi giri di parole, mette in piazza il suicidio di una ragazza appena sedicenne. `La guerra è finita`, infatti, affronta tramite le parole mai banali di Francesco Bianconi quello che sarà poi il leitmotiv dell’intero disco, ossia il dolore e l’alienazione di un’esistenza ai margini, ma soprattutto la rabbia nel ritrovarsi naufraghi nel mare di banalità e omologazione determinato della società moderna. Il punto di vista oscilla fra le parole tragiche della protagonista («Vivere non è possibile») a quelle di un maturo e già disilluso osservatore, vicino e lontano allo stesso tempo, che nient’altro è che Bianconi stesso, il quale dichiarerà successivamente di aver composto il pezzo in omaggio a un’amica conosciuta negli anni del liceo e che arrivò a togliersi la vita appena adolescente. Nonostante la tragicità della vicenda narrata, il cantato è distaccato, impassibile e asciutto, quasi fosse la messa in musica di un trafiletto di cronaca di giornale, in cui ovviamente non manca neppure un po’ di morboso gossip nel ricordare le figure dei genitori impazziti dal dolore. La protagonista è «emotivamente instabile, viziata ed insensibile», annoiata e senza morale, eppure incapace di continuare a vivere nello stesso mondo che l’ha plasmata; sebbene la realtà intorno a lei sia in guerra, dall’America a Belgrado, ella decide deliberatamente di concludere la propria battaglia, scrivendo un cinico biglietto d’addio «prima di respirare il gas/ prima di collegarsi al caos». `La guerra è finita` sarà anche il singolo apripista di tutto l’album, un bell’azzardo per una major come la Warner, ma assolutamente azzeccato, dato che riuscirà a trainare i Baustelle direttamente sulle frequenze giornaliere di MTV, regalandogli il primo grande successo “di massa”.

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La successiva `Sergio` è, invece, una vera sorpresa. A fronte di una presa non immediata, ascolto dopo ascolto sarà capace di rivelarsi come uno degli episodi più emozionanti dell’album, e forse dell’intera carriera dei Baustelle, con un testo e una musicalità in grado di insinuarsi direttamente sottopelle. La figura di Sergio, così come quella della protagonista de `La guerra è finita`, arriva direttamente a materializzarsi da un ricordo di Francesco Bianconi: egli, infatti, era il proverbiale “matto del paese”, che frequentemente si poteva incontrare per le vie di Montepulciano. Sergio aveva una storia terribile alle spalle, narrata interamente nelle parole solo in apparenza sconclusionate del testo: da bambino aveva infatti frequenti crisi epilettiche e, ogni volta che accadeva, la misura “di sicurezza” intrapresa dai genitori semi-analfabeti era quella di rinchiuderlo nel recinto dei maiali. Il risultato è che appena adolescente Sergio viene internato nel manicomio di Siena e vi rimane per ben quindici anni; quando ne esce non ha più crisi epilettiche, ma è completamente fuori di testa. Si tratta comunque di un personaggio piacevole e non violento, sempre seduto sulla panchina davanti al bar a fumare la sua pipa, capace di far divertire i bambini con indovinelli e storie strampalate e disposto a lavarsi solo sotto pagamento della madre.

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Quella composta da Francesco Bianconi per `Sergio` è quindi nient’altro che la testimonianza diretta del suo protagonista, un’anima innocente e derelitta, che si ritrova a spiegare meglio che può la propria situazione di totale incomunicabilità verso coloro che fin da bambino non hanno fatto altro che giudicarlo e condannarloMica sono stupido/ Se esisto a vanvera»). La società, infatti, è standardizzata e non ha né tempo né pazienza per chi non si uniforma alle sue regole; anzi, arriva addirittura a permettere che proprio sui suoi membri più indifesi vengano compiute vessazioni («Cristo Gesù, mi salvi tu?/ Le botte blu, dottori blu») o veri e propri abusi («La notte, sì, è nera qui/ In quattro mi violentano/ Non ho paura»). Il testo, a discapito del suo ritmo cantilenante quasi da filastrocca moderna, è di una crudezza che spezza il cuore, salvo poi chiudersi con la più candida semplicità: «E gira il mondo ed io non so/ Se sono un uomo oppure no/ Mi chiamo Sergio e come te/ Vivo».

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E’ così che arriva `Revolver`, all’improvviso, mordendo e lasciando il segno, quasi fosse una cicatrice mai guarita. `Revolver` può essere senza dubbio considerato l’episodio più internazionale del disco, sia per suoni che per tematiche: si tratta infatti del racconto a tinte noir di una femme fatale, interpretata magnificamente da una cupa e sensuale Rachele Bastreghi, e composto su un tappeto di suoi elettronici incalzanti, a tratti imprevedibilmente gothic. `Revolver` si riallaccia direttamente alle atmosfere torbide e violente de `Il seno` contenuto ne `La Moda del Lento`, ma alla contemplazione estetica del proibito sostituisce uno sguardo ancora più disilluso ed efferato sulla vita.

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Siamo catapultati nel pieno di un mondo del crimine che sa di hard boiled all’americana e protagonista del racconto è una giovane donna che vi è rimasta imprigionata e che, cinicamente e apaticamente, non fa nulla per uscirne. Ancora una volta si tratta di un flusso di coscienza narrato in prima persona, un inno al male di vivere singhiozzato, che procede sopra un ritmo elettronico da tacchi a spillo: la protagonista senza nome di `Revolver` è amara e rassegnata, tossica e promiscua («Dico solo poche frasi/ Prendo solo forti dosi»), ormai incapace di sentire qualunque cosa che non sia un oscuro desiderio di vendetta. Il veloce ma sicuro movimento al buio della strofa culmina poi nell’apatica e sanguinolenta sofferenza del ritornello (post-sparo?), in cui la meravigliosa melodia vocale si dipana in un’atmosfera rarefatta, declinando con disperazione il proprio cruento stillicidio («E non ho più niente/ Non piango più/ Non voglio più/ Altro che freddo/ Dimentica e scordami»). Il timbro vellutato di Rachele è il più adeguato ornamento a questa storia di malavita e sofferenza, capace di dare non solo voce ma anche personalità ai non-sentimenti della protagonista. Alla fine, prevedibilmente, ciò che rimane non è altro che un buco di proiettile.

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Dal crimine di periferia alla Gomorra provinciale il passo è breve, e trova la propria sublime espressione nell’affresco sobrio e retrò de `I Provinciali`. La quinta traccia de `La Malavita` è una delle grandi perle del disco: forte di un connubio perfetto fra elementi orchestrali e anima rock, essa è infatti in grado di tratteggiare alla perfezione, con poche ed evocative pennellate, la vita nella provincia borghese in un pomeriggio di shoegazing autunnale. Francesco Bianconi dichiarò come `I Provinciali` avesse in realtà una genesi molto antica, risalente addirittura ai tempi del `Sussidiario`, quando i Baustelle ne registrarono una prima acerba versione poi scartata: «Molti pensano che fosse volutamente naif: in realtà suonavamo davvero male». Da allora la melodia e l’arrangiamento non sono rimasti certo gli stessi, anzi, sono stati lavorati e cesellati minuziosamente fino a comporre la versione perfetta per `La Malavita`, di inusitata grazia, capace di trasmettere con incredibile calore il senso di inadeguatezza tipico di chi è nato e vissuto lontano dalle grandi città. In realtà, a ben vedere, i “provinciali” del titolo non sono soltanto coloro che hanno trascorso la propria esistenza nelle pieghe di una «provincia cronica», ma tutti quelli che, indipendentemente dal luogo in cui vivono, si scoprono portatori di una mentalità arretrata, campanilistica, forgiata da cliché e pregiudizi. Qualcuno disse, infatti, che l’Occidente stesso non è altro che un’immensa e soffocante provincia, che trascorre da Los Angeles a Varsavia senza soluzione di continuità. Ciò che tuttavia è certo è come il talento di Francesco Bianconi nel comporre trovi in questo splendido pezzo la sua assoluta espressione: parole e musica, infatti, sono capaci di accordarsi in modo divino, sillaba dopo sillaba, ottonario dopo senario, metafora dopo paronomasia. E mai come ne `I Provinciali` la lirica è in grado di nascere e respirare in simbiosi alle note stesse, come se insieme non fossero altro che un’unica entità pulsante di stupori e tremori («Morire la domenica/ Chiesa Cattolica/ Estetica anestetica/ Provincia cronica»).

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L’incanto delle parole continua con `Il Corvo Joe`, un ritratto al vetriolo contro le finzioni sociali dell’uomo moderno, forse l’apice lirico dell’intero disco per maestria sarcastica e lucidità emotiva. Pensato originariamente per Celentano e inserito al centro de `La Malavita` quasi a spezzare l’album a metà,  nel cantarlo la voce di Francesco Bianconi si avvicina e lambisce territori deandreiani, senza tuttavia mai risultare fastidiosa o scadere nell’imitazione fine a se stessa. Esattamente come un pezzo del grande Faber, `Il Corvo Joe` mira a descrivere il punto di vista di un personaggio privo di grazia, evitato o tollerato a stento, che con calma serafica articola la propria amara accusa contro coloro che lo hanno sempre perseguitato e deriso. In realtà, come molti altri personaggi del disco, anche il corvo protagonista del brano esiste veramente: «io l’ho visto», racconta Bianconi, «è come un pollo nero gigante che si comporta come un cagnolino, perché si era rotto una zampa e dei barboni lo hanno curato e lo hanno addomesticato. Gli tirano le cose e lui le va a prendere facendo divertire questi disgraziati».  In virtù di ciò, il Corvo Joe si presenta come il portavoce perfetto per tutte quelle creature, sia umane che non, le quali, per motivazioni ataviche e paure irrazionali, non vengono accettate dalla società; essendo, infatti, stato destinato dalla natura stessa a indossare tenebre per abiti e a nutrirsi di vermi e lucertole, egli si arrende alla realtà di non essere altro che un simbolo di paura e di morte per chi lo osserva.

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In realtà, la civiltà occidentale genera continuamente dei “Corvo Joe che, anche senza avere piume nere o voci gracchianti, sono isolati, emarginati in mezzo al luccichio e allo sfarzo della ricchezza economica. Il sarcasmo, in proposito, scocca fin dalle prime battute che scherniscono con poche selezionate parole la superficialità e l’inutile opulenza borgheseAnche oggi è domenica/ Tutta d’oro la gente luccica»), in grado di generare arroganza in coloro che le detengono, rendendoli capaci solo di puntare il dito e vessare tutti coloro che appaiono diversi («Solo sassi sapete lanciare/ Meritate di andare per me nell’eterno dolore»). Non mancano poi le citazioni letterarie, che passano dall’`Albatros` di Baudelaire all’immaginario di Edgar Allan Poe, fra i pochi ad aver colto la vera essenza della condizione esistenziale di tali “detriti” della società («Solo certi poeti del male mi sanno cantare»). Ma è nel finale che la canzonatura assume tinte ancora più macabre e crudeli: «Ma vi perdono/ Perché in fondo portate nel cuore/ Sangue che è destinato a seccare/ Vivete un morire». La sofferenza e l’accusa trascorrono così come una marcia funebre attraverso le orecchie, il cervello e il cuore dell’ascoltatore, per poi essere assorbite al pari di un amaro boccone masticato e digerito lentamente.

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Dallo stralunatissimo e lisergico dream-pop de `Il Corvo Joe`, i toni grotteschi e ruvidi delle liriche continuano con `Un Romantico a Milano`, irresistibile filastrocca surrealista e, forse, fra le melodie più ricercate e raffinate mai composte dai Baustelle. Sarà per l’atmosfera d’arte capace di ispirare dal principio, sarà per la dedica a `La Vita Agra` di Luciano Bianciardi, ma `Un Romantico a Milano` si presenta come il delitto perfetto dell’album, un mix di sensazioni che solo chi vive o ha vissuto nel capoluogo meneghino riesce davvero a comprendere. `Un Romantico a Milano` è una canzone dandy composta per dandy, un chiaro omaggio al background culturale del suo autore, milanese d’adozione, e praticamente un classico nel repertorio baustelliano. Francesco Bianconi compone e canta una disillusa danza nella quale solo la magia degli archi riesce a smorzare il sangue che distilla dal testo, introducendo un lieve raggio di sole, raro come quelli di Milano, capace di sciogliere il doloroso «freddo nei polmoni» del protagonista. Come da titolo, il brano corre su due binari paralleli, ossia sulle due accezioni, antica e odierna, del termine “romanticismo: il malessere esistenziale ottocentesco ricco di fascino e facente capo al milanese Alessandro Manzoni, e quello più moderno, oscuro e seducente, di cui rappresentate è l’omonimo Piero. Il “Romantico” del brano, in realtà, non è altro che lo stesso Bianconi, perso nelle vie di una città che non riconosce e che riesce a donargli solamente amarezza e solitudine («Fuggi?/ Cosa fuggi, non c’è modo di scappare»), ma che in realtà si ritrova anche ad amare profondamente («Io, vi amo/ Vi amo ma vi odio, però/ Vi amo tutti/ E’ bello, è brutto, io non lo so»). Se fino a questo momento `La Malavita` non aveva fatto altro che rimandare alla cupa consapevolezza di un’esistenza priva di scopo e di una realtà nemica e impietosa, `Un Romantico a Milano` sdrammatizza con dosi enormi di ironia questa presa di coscienza, perché in fondo «quando un dandy muore fuori nasce un fiore».

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Come in ogni quotidiano che si rispetti, a complemento di notizie di cronaca nera e racconti di attualità, vi è sempre almeno un trafiletto di analisi sociale, in cui l’autore di turno mira ad evidenziare i retroscena e le motivazioni sotterranee alla base di una determinata notizia che, necessariamente, deve condurre il lettore a una riflessione. In perfetto accordo con questa consuetudine, i Baustelle decidono di inserire all’interno de `La Malavita` una spiegazione a ciò che hanno narrato fino ad ora, in particolare a proposito della vuotezza di valori e di prospettive che caratterizza la gioventù contemporanea. Ispirata ad un articolo del 2004 pubblicato su Repubblica da Marco Lodoli, `A vita bassa` è infatti una delle pochissime canzoni italiane in grado di rappresentare senza retorica o beceri moralismi il dramma esistenziale somatizzato dagli adolescenti, i quali, in un mondo di divi, starlette e meteore, si sentono falliti, parte di un continente sommerso che mai verrà alla luce, comparse destinate a rimanere sullo sfondo delle loro stesse vite. Parla Monica, per ragioni metriche eletta a simbolo di tale generazione alla deriva, che, con spietato candore, espone al proprio professore le ragioni che stanno alla base della massificazione giovanile: quale antidoto può esserci, infatti, ad «un futuro anonimo», in cui la personalità è un lusso che solo una piccola élite si può permettere? Nessuno, se non «la scritta Calvin Klein» e la «firma D&G/ tatuata sugli slip/ sopra la vita dei jeans/ che quest’anno va bassa». Sono quindi i vestiti di marca, i profumi, i capi griffati a costituire lo specchio per le allodole, l’unica consolazione alla consapevolezza di essere parte di una massa informe, che invidia i VIP solo perché sono stati in grado di sollevarsi dal fango delle loro esistenze. Se un tempo l’ammirazione per le persone famose, infatti, conduceva i giovani all’emulazione, ad elevarsi, oggi a dominare è un’altra logica: c’è chi è dentro e chi è fuori, e solo chi ce l’ha fatta potrà condurre una vita degna di essere vissuta, mentre tutti gli altri saranno condannati ad essere meri spettatori, individui anonimi destinati a razzolare nel nulla. E’ così che «i cantanti per le radio cantano/ Ed ogni anno foglie morte cadono/ I calendari cambiano/ Ed i famosi ridono», mentre «tutto il resto è inutile».

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Con la splendida `Perché una ragazza di oggi può uccidersi?` giunge infine a concludersi idealmente la “trilogia adolescenziale” del disco, iniziata con `La guerra è finita` e proseguita con `A vita bassa`. Dopo la cronaca di un suicidio annunciato e la condanna alla società che lo ha determinato, ecco infatti l’inascoltato grido di disperazione della gioventù che ne è vittima, l’estrema richiesta di aiuto prima di compiere il gesto definitivo. La supplica di una carezza positiva, a protezione dai mali del mondo, trova forma nelle impotenti testimonianze delle due voci narranti, spettatori e al tempo stesso carnefici del suicidio della protagonista. `Perché una ragazza di oggi può uccidersi? ` è infatti un brano delicato e crudele, che solo un gruppo come i Baustelle poteva essere in grado di comporre, interpretato dalle voci di Francesco e Rachele impegnate in un dialogo suffuso, che procede con il ritmo lento e riflessivo di un melò strappalacrime.

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La sfortunata protagonista in questione non chiedeva altro dalla vita se non amore e amicizia, ma si è vista ritornare indietro solo sentimenti abortiti, da parte di un fidanzato – impersonato da Bianconi – che l’ha tradita e di un’amica – Rachele – che ne è stata la spietata complice; essi si trovano quindi a fornire la propria testimonianza davanti al commissario incaricato delle indagini e, dopo aver addotto una serie di motivazioni plausibili per il suicidio dell’amica, tutte legate ad un invincibile male di vivere, confessano infine la propria responsabilità («Ma la causa scatenante, il motivo vero, siamo io e te»). Omaggio struggente al film `Io la conoscevo bene` di Antonio Pietrangeli, amatissimo da Francesco Bianconi, `Perché una ragazza di oggi può uccidersi? ` è l’ennesima perla nera del disco, un inno alla disintegrazione delle illusioni («Forse perché/ Quello che lei voleva/ Era una vita da star/ Milano style») e al dolore lancinante di una vita privata del proprio scopo («Certo perché/ Non le importa più niente/ Del freddo forte che fa»), ma non un’accusa contro l’ennesima delle sue vittime. D’altronde, «come credete che si sentirà adesso?»

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Paradigmatica in questo senso è la successiva `Il Nulla`, un testo scabroso rivestito di orecchiabilità pop, dal ritmo dance e festoso, con tanto di tastiere in primo piano e voce robotica alla Kraftwerk ad introdurlo. Nell’arrangiamento e nella musicalità fortemente “sintetici”, `Il Nulla` svela l’ultima grande collaborazione dei Baustelle con Fabrizio Massara, che prepotente incide con le proprie tinte elettroniche nella composizione di questo manifesto anti-metafisico, punto terminale dell’operazione di disincanto compiuta da Francesco Bianconi nel corso di tutta `La Malavita`. La ragazza delle prime strofe a cui si rivolge il moderno chansonnier è probabilmente la vittima designata fin dal principio dell’album, ossia la Meraviglia, quel sentimento unicamente umano che si emoziona dinanzi a un tramonto, che indossa il Mito e che dietro ad ogni campo di grano vede il Divino, vede Van Gogh. La Meraviglia ha fiducia nell’esistenza, coglie la bellezza nelle piccole cose e il finalismo intrinseco del mondo, ma arriva ad incarnarsi anche nel senso comune, che vuole far prevalere l’ordine sul disordine e la coscienza sull’irrazionale. All’autore piacerebbe davvero che tutto questo fosse vero o possibile, ma invece teme il peggio: teme che un significato di per sé non esista e che l’essere sia «tutto e niente», generato e impunemente mantenuto in vita dal calore di un «sole colpevole». Ed è così che la romantica condivisione di un tramonto non che può che lasciare il posto all’asettica richiesta di un chewing-gum.

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In ogni strofa de `Il Nulla` Bianconi giunge così a dipingere una figura ideale che, in tutta la propria decadente correttezza politica, diventa il riflesso più impietoso dell’uomo occidentale, quello che per definizione fa il turista a Parigi e ad Amsterdam, che veste di marca secondo la moda del periodo e che si intrattiene in beati megastore. Ma ecco che giunge il ritornello, capace di svelare con poche e semplici parole il retrobottega oscuro di tali esistenze, fatto di prostituzione, ipocrisia e facciata da salvare; il borghese, infatti, ostenta il suo successo e addita i transessuali e le nigeriane lungo i viali, salvo poi a fari spenti offrire loro denaro con un laconico «solo bocca, quanto vuoi?». Risulta a questo punto facile capire come, in realtà, il Nulla del titolo non risieda altrove se non nel cuore stesso dei cosiddetti benestanti e come la bugia «che sta alla base del mondo» possa apparire quanto mai evidente proprio all’interno di un caotico ipermercato, dove la pagliacciata non può far altro che tramutarsi in tragedia.

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Si è a questo punto giunti al termine de `La Malavita` e tutto quello che c’era da dire sembra essere già stato detto; d’altronde, come dichiarato nelle parole finali de `Il Nulla`, «i segnali spesso non significano mai». Eppure i Baustelle riservano ancora una sorpresa all’ascoltatore, che arriva ad incarnarsi nella tenera love-song `Cuore di Tenebra`, la quale, in verità, di “tenebroso” ha solo il titolo. Il «ragazzo tenebra», infatti, ancora intriso di rabbia post-adolescenziale e di disillusione, vittima di incomunicabilità e rancore, si ritrova al ritmo di questa dolce melodia a perdere tutte le proprie piume nere e a mostrare il primo vero sorriso dall’inizio dell’album. E fra una strofa scanzonata e un ritornello “la-la-la”, ecco che improvvisamente giunge a rendersi conto di come una luce capace di illuminare il suo cammino sia in realtà sempre esistita: «e non è il fulmine/ e non è il sole/ e neanche il Bene del Signore/ Sei tu…/Amore!». `Cuore di Tenebra` è dunque una canzone di rinascita, di resurrezione, oltre che uno dei pochi testi in cui Francesco Bianconi decide di mettere da parte metafore e perifrasi, per comunicare nella maniera più diretta possibile come l’unica speranza per uscire dal buio di una vita apparentemente priva di senso sia di trovare un amore vero, l’unico capace di proteggerci dal male. Come i grandi filosofi, infatti, anche i Baustelle sanno bene che una via d’uscita al dolore è sempre presente, in un modo o nell’altro, e solo per questo vale la pena di inseguirla. Ed è così che `La Malavita` si può infine chiudere, con un insperato raggio di sole dopo tante tenebre, attraverso un brano che, in antitesi al «Vivere non è possibile» de `La guerra è finita`, sussurra nella maniera più semplice e pop possibile «E così/ per sempre vivere».

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Colpendo con una raffinatezza e una grazia senza pari, i Baustelle, sempre calmi, imperturbabili e silenziosamente devastanti, folgorano ancora una volta vecchi e nuovi ascoltatori con la loro musica d’élite. E’ un disco importante `La Malavita` ed è importante perché è bello, riflettuto, profondo, eppure anche semplice e diretto, come tutti i dischi di musica pop dovrebbero essere. Francesco Bianconi, con il suo personalissimo stile raffinato e noir, si conferma ancora, qualora ve ne fosse stato bisogno, come uno dei più ispirati songwriter italiani e i Baustelle, con la loro musica d’autore, una delle più belle realtà del panorama alternative. La loro è un’armonia educata, quasi antica, capace di tracciare con la delicatezza di una carezza la malinconia dei nostri tempi e il dolore sotterraneo delle nostre vite; eppure, per quanto il loro messaggio non sia urlato, la loro voce risuona sempre forte e chiara, appassionata nell’articolare la propria protesta contro l’omologazione, l’ignoranza e la volgarità brutale di una realtà che è figlia dello sviluppo ma non del progresso. I Baustelle, d’altronde, sono sempre stati capaci di risucchiare nel loro elegante vortice musicale i cultori dell’indie italiano e i buoni intenditori, anche quando se ne uscivano con un demo autoprodotto distribuito nei cestoni dei supermercati. Con `La Malavita`, tuttavia, sono stati anche in grado di fermare per un momento un mondo in crisi, di scattarne un’impietosa istantanea e, forse senza saperlo, di contribuire a salvarlo.

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