`Il Divo` di Paolo Sorrentino • L’eleganza di Belzebù

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«Guarda, Signore, e fissa lo sguardo, perché sto diventando spregevole agli occhi di chi mi contempla»

Erano trecentomila gli italiani che, sopraggiunte le ennesime elezioni, decidevano di donare il proprio voto a Giulio Andreotti; in lui vi trovavano comprensione e sicurezza, l’atteggiamento paterno di un uomo che sembrava conoscerli uno per uno e che era capace di guardarli dritti negli occhi, senza dover forzatamente ricorrere a intermediari fatti di carta stampata o di schermi luminosi.

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A noi posteri, oggi, sembra un vero paradosso, eppure la verità era che il politico Giulio Andreotti sapeva farsi voler bene dalla gente in maniera amabilmente squisita; e non solo: era in grado di arrivare praticamente ovunque. Come altri illustri esempi venuti dopo di lui, Andreotti sapeva raggiungere il proprio elettorato con ogni mezzo a sua disposizione, dai libri al tifo per la Roma, dalle battute da Bagaglino al sarcasmo più tagliente. Era inoltre capace di essere brillantemente autoironico nei confronti del proprio aspetto fisico, per non parlare del suo proverbiale atteggiamento curiale, grazie al quale la gente era in grado di percepirlo come vicino, familiare e fondamentalmente innocuo.

D’altronde, chi poteva avere paura  di quell’uomo all’apparenza così mite, provvisto di una gentilezza a tal punto raffinata e cordiale? Chi poteva non sorridere di fronte a quelle spalle curve, fragili come quelle di un bambino, davanti a quelle orecchie dalla forma curiosa o a quelle mani delicate, dalle dita lunghe e bianchissime, simili a quelle di un vecchio bibliotecario? Chi poteva temere un malatino, così fragile che sembrava potersi spezzare da un momento all’altro, ripiegato su se stesso in un atteggiamento di perpetua difesa?

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Eppure, come molti oggi sanno, Giulio Andreotti era ben altro rispetto alla maschera di benevolo vecchietto che amava indossare durante le sue interviste e le sue apparizioni pubbliche. Il fatto era che, paradossalmente, più tentava di apparire rassicurante, più in realtà Andreotti faceva paura. Il vero potere, infatti, quello che toglie il fiato e terrorizza, non ha bisogno di tracotanza o di occhi fiammeggianti, non necessita di voci tonanti o di oscure apparenze… tutt’altro! Il vero potere è capace di distruggere irretendo, di minacciare con discrezione e diplomazia, di strangolare con garbo e nastri di seta.

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Giulio Andreotti, generalmente, non agiva mai in prima persona, ma, a bassa voce e educatamente, si limitava a consigliare e a suggerire, a rincuorare e a proteggere. Quegli occhi scurissimi, piccoli e leggermente obliqui, brillavano d’intelligenza ed erano capaci di osservare e registrate tutto ciò che accadeva intorno, senza però mai far trapelare un’emozione umana o spontanea quale che fosse, né un moto di gioia o di riconoscenza, né un lampo di rabbia o di tacita disapprovazione. D’altra parte, Giulio Andreotti era provvisto di una mente invidiabile e di una memoria rara e tenace, all’interno della quale annotava tutti i favori resi e gli sgarbi subiti, i nomi dei nemici da abbattere e degli amici da promuovere. Quelle labbra strette e sottili, raramente piegate in un sorriso, quella strana testa incassata in mezzo alle spalle ingobbite, quell’apparenza così delicata e, al contempo, così elegante, non erano quindi altro che l’estrema dimostrazione di una personalità gelida e distaccata, lontana dal mondo degli uomini e delle passioni, appartenente ad un enigma vivente impossibile da decifrare.

Ad un certo punto, tuttavia, agli occhi dell’opinione pubblica apparve la sconcertante rivelazione che, forse in seguito ad un impronunciabile  sortilegio, anche quell’oscuro signore, quell’individuo inafferrabile, non fosse completamente invincibile o immune da attacchi e scandali, ma che a sua volta potesse, in qualche modo, essere incastrato.

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Era il 27 marzo 1993, quando Giovanni Conso, ministro di Grazia e Giustizia del primo governo Amato, ricevette sulla propria scrivania la domanda di autorizzazione a procedere contro quello che, anche all’epoca, rimaneva l’uomo politico più potente di Italia. Il nome dell’autorevolissimo indagato era proprio quello di Giulio Andreotti, che veniva ora chiamato alla gogna dopo essere stato per sette volte Presidente del Consiglio e ventuno Ministro della Repubblica. In particolare, ciò che a Conso fece raggelare il sangue, furono i reati a cui tale personalità veniva chiamata a rispondere: associazione a delinquere semplice e associazione a delinquere di stampo mafioso.

Come è facile immaginare, lo scandalo fu enorme; i migliori uomini della Dia vennero sguinzagliati sulle tracce di carte perdute, fantasmi del passato e boss della Sicilia occidentale, mentre milioni di pagine di interrogatori, testimonianze e atti giuridici furono scritte  per quello che a Palermo venne definito come il «processo del secolo».

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Il popolo italiano, dal canto suo, si spaccò in due fazioni estreme, che comprendevano da una parte quelli che godevano nel vedere il Divo Giulio trascinato finalmente in e tribunale e, dall’altra, coloro che arrivarono a considerarlo come il più grande perseguitato della storia d’Italia. Innocente braccato o spietato criminale che fosse, su Giulio Andreotti si sprecarono le più contrastanti opinioni; alcuni giunsero perfino a mormorare come il vecchio statista, in un imprecisato giorno di un imprecisato anno, avesse stretto fra quelle sue gelide e lunghissime dita l’immaginetta della Madonna dell’Annunziata, la santa protettrice dei mafiosi, pronunciando le fatidiche parole: «Come carta ti brucio e come santa ti adoro, come brucia questa carta deve bruciare la mia carne se tradirò Cosa Nostra». A quel punto Andreotti non arrivava ad essere soltanto, come si vociferava inizialmente, un amico sul quale la mafia poteva contare, un punto di riferimento nel cuore dei palazzi del potere, ma molto di più: apparteneva alla «Cosa stessa», era uno di loro!

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Fu così che emersero dalle nebbie del passato i presunti incontri con boss mafiosi del rango di Stefano Bontate, il bacio con Totò Riina e i patti oscuri con Vito Ciancimino, sindaco di Palermo e tesoriere di Cosa Nostra; e, ancora, il malsano legame con Salvo Lima, i colloqui segreti con il banchiere di Dio Michele Sindona e con il giudice “ammazzasentenze Corrado Carnevale, e poi le infinite amicizie, le strette di mano e le pacche sulle spalle ai membri di quella che Carlo Alberto Dalla Chiesa definì come «la corrente politica più inquinata» della bella Sicilia.

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Fra le accuse di tanti colpevolisti di sinistra e le assoluzioni di altrettanti innocentisti di destra, tuttavia, ciò che appariva come certo era che il processo di Palermo sarebbe stato finalmente in grado trascrivere la vera storia d’Italia, arricchendola di numerose pagine oscure grondanti sangue, fatte di omicidi, complotti e affari illeciti, una piramide di trame criminali e legami sconosciuti di cui probabilmente sarebbe stato impossibile individuare la cima. In tutto questo, vi era una costante che  sempre ritornava, ed era proprio quella rappresentata dall’elegante figura ingobbita di Belzebù, ovvero Giulio Andreotti, sulla quale convergevano imputazioni, affinità, indizi e amicizie, in grado di porlo al centro di una complicatissima ragnatela di accuse e responsabilità. Tutto ciò fece pensare che quello strano personaggio, quell’apparentemente mite politico d’altri tempi, in realtà, avesse intessuto per più di quarant’anni la trama politica e sociale d’Italia, servendosi di tutti i materiali a propria disposizione, dai più nobili ai più sordidi, e assumendo di conseguenza l’identità di autentico, e mai risolto, mistero della Prima Repubblica italiana.

Quali segreti fossero nascosti in quelle spalle incassate e in quel profilo da statista, tuttavia, difficilmente potranno essere oggi rivelati; Giulio Andreotti, infatti, non c’è più, se n’è andato, è morto il 6 maggio 2013 nella sua casa di Roma, alla venerabile età di 94 anni. Sembrava dovesse esistere per sempre, che fosse incastonato nella storia della Repubblica come nel suo seggio di Senatore a Vita.

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Amato o odiato che fosse, la morte di Andreotti non ha lasciato nessuno indifferente: con il più grande sopravvissuto della storia politica italiana, infatti, è arrivata a morire anche una delle fasi maggiormente cruciali della storia del nostro paese. E’ così che, in mezzo al valzer di elogi postumi, volti ad inneggiarlo come il più grande statista del dopoguerra, e di commenti massacranti, puntati invece a dipingerlo come il più letale veleno nel sangue della nostra Nazione,  ciò che a tutti è apparso evidente è  come, insieme a Bettino Craxi, Giulio Andreotti finì per essere il principale burattinaio del decennio d’oro degli anni Ottanta e, non di meno, il Cardinal Mazzarino di molte pagine oscure del nostro paese. E per chi ha cuore la storia d’Italia questo è un fatto che non può e non deve essere ignorato.

E’ quindi utile, soprattutto oggi, dare una rispolverata alla figura e alla vita di quello che fu il più abile e il più ambiguo esponente di un modo di fare politica che sembra essersi irrimediabilmente estinto;  in proposito, cosa c’è di meglio che unire l’utile al dilettevole, rinnovando  la visione del biopic capolavoro diretto dal regista Paolo Sorrentino nel lontano 2008 e conosciuto come `Il Divo`?

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`Il Divo` è qualcosa di più sofisticato di un mero film biografico volto a rappresentare una cronologia storica o un resoconto di eventi passati: è un ritratto a tutto tondo del suo protagonista, un tentativo di esplorazione nella complessità di una mente umana; da questo punto di vista, infatti, Giulio Andreotti rappresentò una vera e propria miniera di aneddoti e ispirazioni per Paolo Sorrentino: non solo fu una figura talmente longeva, sia umanamente che politicamente, da attraversare gran parte della moderna storia italiana, ma, come già detto, per decenni rappresentò un vero e proprio enigma vivente, una personalità così calma e imperturbabile da affascinare chiunque avesse l’ambizione di dipingerne un ritratto.

Paolo Sorrentino, prima di realizzare `Il Divo`, incontrò una volta Giulio Andreotti nel suo studio, a Piazza San Lorenzo in Lucina. Accompagnato dal giornalista Giuseppe d’Avanzo, che significativamente contribuì alla stesura della sceneggiatura, si intrattenne con lui in una lunga conversazione, al termine della quale lo stesso d’Avanzo commenterà: «Andreotti ha parlato per tre ore e non ha detto niente». Nonostante le domande scomode e le poco velate accuse, infatti, Andreotti dimostrò un perfetto controllo delle proprie emozioni, al punto da neutralizzare qualsiasi insinuazione,  senza minimamente scomporsi laddove molti altri si sarebbero lasciati vincere dalla rabbia. Le sue risposte, esposte con una calma e una lentezza quasi snervante,  erano lunghe e articolate, capaci di perdersi in dettagli insignificanti e, di conseguenza, di far dimenticare il punto cruciale di ciò che in realtà era stato inizialmente domandato.

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Successivamente, a proposito di quell’incontro, Paolo Sorrentino affermò come ciò lo colpì maggiormente fu il modo di Andreotti di presentarsi in maniera semplice e genuina, quando invece non era nient’altro che un addensato di complessità. Questo suo atteggiamento perennemente ambiguo e la sua innata abilità nel mascherare le proprie reali intenzioni, furono gli stessi ingredienti che lo portarono ad essere sempre protagonista delle questioni decisive, riuscendo però ad apparire all’esterno unicamente come una comparsa. Molto riservato, Giulio Andreotti era allo stesso tempo un abilissimo comunicatore, capace di toccare il cuore della gente, senza tuttavia mai infondere un eccessivo senso di familiarità, che gli sarebbe infine risultato controproducente. Era un monumento vivente, l’emblema di un’epoca e di un certo modo di fare politica, eppure faceva di tutto per disingannare questa idea, mostrandosi unicamente come una persona modesta e cordiale.

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Questa abilità nel disinganno, affinata al punto da risultare quasi mefistofelica, fu la stessa che, probabilmente, portò Andreotti ad essere onorato in vita di numerosi soprannomi, ognuno dei quali era capace di evidenziare una sua particolare caratteristica fisica o caratteriale; eccolo quindi appellato come “Divo” in un articolo di Mino Pecorelli, oppure come “il gobbo”, per il suo aspetto esteriore, o  “Belzebù”, in amorevole accoppiata con “Belfagor”/Licio Gelli. E, ancora, come dimenticare “zio”, “volpe”, “Papa Nero”, “la salamandra”, tutti nomignoli per i quali Andreotti mai si dimostrò adirato e a cui contrappose unicamente la propria ironia romanesca, la stessa che lo fece amare dai suoi elettori e detestare, seppur con stima, dai suoi avversari. D’altronde, Andreotti mai avrebbe accettato di lasciarsi andare ad una reazione stizzita rispetto a una critica o a una qualsiasi forma di scherno, dato che fin dalla gioventù si era riscoperto a provare una sorta di naturale disprezzo nei confronti di tutti coloro che si abbandonavano alle proprie emozioni. Era un emblema immobile e incrollabile in un mondo in perenne movimento, come affermò Oriana Fallaci, e fu proprio questo, infine, il vero segreto del suo potere.

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`Il Divo` contiene tutto, ma proprio tutto, quello che ci si potrebbe aspettare da un film su Giulio Andreotti: c’è Licio Gelli e c’è il fantasma di Aldo Moro, c’è l’omicidio Lima e quello di Mino Pecorelli, c’è tutta la «mala corrente» dispiegata, da Paolo Cirino Pomicino, “O’ Ministro”, al cardinale Fiorenzo Angelino, da Vincenza Enea Gambogi, la storica segretaria, alla moglie Livia, sempre in ombra; e poi ci sono lo studio in piazza San Lorenzo e l’archivio privato, la passeggiate notturne e la passione per i gelati, il “vizio” del confessionale e tutte le arguzie, le citazioni, le battute letali e fulminee, capaci di far ridere nell’immediato e, solo dopo, ripensandoci bene, di gelare il sangue.

`Il Divo` è quindi un film  complesso, a tratti anche discutibile, come d’altronde è naturale che sia, dato i numerosi punti sensibili che tocca; al centro una delle figure più note della storia repubblicana italiana, caricaturizzata da chiunque fino allo stremo, ma presentata, questa volta,  in tutta la propria enigmatica dimensione umana.

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Curiale, immobile, quasi in uno stato di rigor mortis, era il potere democristiano alla fine degli anni Ottanta, l’epoca della sua decadenza, dopo mezzo secolo di dominio praticamente incontrastato. In particolare, siamo nel 1991, quando Giulio Andreotti viene eletto per la settima e ultima volta  Presidente del Consiglio. Nonostante l’apparente successo iniziale, il suo governo è debole, macilento, incapace di affrontare e sconfiggere i problemi che sconvolgono l’Italia e destinato, quindi, ad un’esistenza di breve durata. Come se tutto ciò non bastasse, una terribile tempesta giudiziaria sta per abbattersi su di lui, che si concretizzerà definitivamente nel maxi-processo per associazione mafiosa.

E’ proprio in questo limbo di effimera calma e sulla soglia di una reggenza negata, quella di Presidente della Repubblica, che Paolo Sorrentino concentra la propria lente di ingrandimento su Giulio Andreotti; è solo in questi pochissimi mesi, infatti, in questo lasso di tempo così breve rispetto a una carriera decennale, che è possibile rintracciare gli atti finali dello sfaldamento di un’egemonia, sintetizzando così il passaggio fra ciò che è stato prima – il potere senza limiti – e ciò che sarà dopo – la scomparsa della DC.

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Eppure, nonostante la collocazione temporale definita, con il procedere della pellicola lo spettatore arriverà a provare la sensazione di trovarsi, in realtà, all’interno di un universo senza tempo e senza spazio, una gigantografia immobile, un affresco apparentemente indecifrabile e, al contempo, estremamente dettagliato. Ci si rende conto, infatti, che ciò che si sta guardando non è solo la fine di un epoca, ma è il ritratto di un qualcosa di inquietante e  tuttavia familiare, lo stesso qualcosa che da tempi immemori ha sempre abitato le pieghe del nostro paese, che ci ha resi sudditi senza che ce ne accorgessimo e che poi, a proprio piacimento, ci ha uccisi e sacrificati.

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E’ con questa angosciosa impressione di ineluttabilità che osserviamo la carrellata di morti che Sorrentino decide di dispiegarci nei primi minuti di film: dalle stragi di Capaci e Via d’Amelio all’assassino di Mino Pecorelli e Giorgio Ambrosoli, dal rapimento di Aldo Moro ai “suicidi eccellenti” di Roberto Calvi e Michele Sindona; e poi tutte le altre sparizioni, gli strangolamenti, gli avvelenamenti, la P2 e le accuse dei pentiti di mafia, diretti insieme a riprodurre un ritratto complessivo di sangue e devastazione, per  un totale di 230 morti e oltre 800 feriti. Niente filtri, niente metafore, solo la concretezza dei nomi e dei cognomi, e di volti, ahimè, tragicamente familiari. Ogni cadavere rappresentato di questa carrellata risulta quindi più che un macabro promemoria, ma una denuncia rivolta nei confronti di un certo livello di intrigo e di potere italiano, un doloroso inserto in una cronologia di morti senza mandanti.

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Alle esplosioni, agli spari e al sangue, tuttavia, arriva immediatamente a contrapporsi il deforme, l’innaturale e il paradossale. E’ così che in una carrellata grottesca degna delle migliori commedie all’italiana attraversano lo schermo tutti i goodfellas” andreottiani, un comico teatrino di maschere e caricature, una “sporca dozzina” che, radunandosi attorno al capo, macina battute di dubbio gusto e architetta malsani espedienti politici. Ci sono tutti: Paolo Cirino Pomicino, Franco Evangelisti, Vittorio Sbardella e il cardinal Angelini, l’altra faccia del Divo Giulio, i gestori della materialità del potere, il «letame che serve per far crescere gli alberi» come Andreotti stesso affermerà in una delle citazioni riportate dal film. Al centro di questo carosello degno della più autorevole gangster story, infatti, ritroviamo infine sempre lui, Belzebù, che si staglia perennemente solitario nelle immense stanze di Palazzo Chigi come nei corridoi del suo appartamento, interpretato da un magistrale Toni Servillo, in equilibrio fra la parodia da Bagaglino e l’inquietudine di Nosferatu.

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L’Andreotti di Paolo Sorrentino è un personaggio straordinario: mefitico e sarcastico,  è un dottor Jekyll sempre sul punto di trasformarsi in Mr Hyde, una maschera di ghiaccio incapace di incrinarsi anche dopo le più brucianti sconfitte. La sua figura è praticamente indecifrabile e lui stesso è il primo a giocare con la propria ambiguità, in un’alternanza continua fra scatti da commedia dell’arte e lampi di clamorosa intelligenza, seppure, alla fine, trovi sempre maggior convenienza ad apparire come una persona normale, distaccata ma ironica.

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Fin dalla prima inquadratura si percepisce come la principale caratterizzazione di Andreotti sia una, ovvero quella di un uomo completamente solo che si muove e lavora nell’oscurità. E’ così, infatti, che lo vediamo maggiormente a suo agio, dal momento in cui lo ritroviamo a curarsi l’emicrania con l’agopuntura fino alle quotidiane passeggiate nei vicoli di Roma prima dell’alba, dai confessionali isolati che sembrano quasi lettini psicanalitici alle riunioni con la propria corrente dominata dalla più celere obbedienza. Il Divo Giulio è quindi un personaggio quasi metafisico, che agisce e, soprattutto, pensa quando gli altri dormono, comodo solo nella sua deforme postura incurvata, come un cattivo gobbo di Notre Dame abitante le chiese nient’altro che per interesse («I preti votano, Dio no»). L’uomo che in è lui all’apparenza è morto, lasciando solo un guscio privo di sentimenti.

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Da questo punto di vista, estremamente simbolica è la rappresentazione della prima riunione parlamentare avente lo scopo di eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, nella quale tutti i deputati iniziano a litigare fra loro, urlando, offendendosi e lanciando oggetti, mentre Andreotti, in netto contrasto, rimane silenzioso e calmissimo. Il caos regna sovrano, nel Parlamento come nell’Italia stessa, eppure l’unico segno di disappunto che il Presidente dimostra è quello di rigirarsi la fede intorno al dito: è perfettamente consapevole di essere la più potente e autorevole figura politica italiana e, di conseguenza, nulla può scalfirlo; o, almeno, questo è ciò che appare.

In realtà, ciò che vediamo in primo piano è solo il Giulio Andreotti noto all’immaginario comune, la sua mitologia, che ben si manifesta nelle frequentissime e taglienti citazioni  come «Il potere logora chi non ce l’ha», oppure «So di essere di statura media, ma se mi guardo intorno non vedo giganti».  Insomma, davanti ai nostri occhi si dispiega in maniera chiara e cristallina tutto quello che un qualunque varietà metterebbe in scena per parodiare Andreotti, le stesse caratteristiche che, probabilmente, anche lui desiderava far trasparire di sé.

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Eppure, `Il Divo` non si riduce solo a questo; vi è un’eco, infatti, un riverbero quasi impercettibile  che, fulmineo e inquietante, risuona fra le pieghe di quel volto apparentemente  impenetrabile. A suscitarlo, in particolare, sono le frequenti apparizioni, quasi farsesche, della voce e del fantasma di Aldo Moro, ripreso nei suoi ultimi giorni di vita  a scrivere il suo Memoriale, all’interno della prigione delle Brigate Rosse.

D’altronde, è risaputo, il vero avversario di Giulio Andreotti non fu Amintore Fanfani, come molti ritennero, ma Aldo Moro. In certi aspetti, i due statisti furono piuttosto simili, in altri completamente diversi: Moro era uno stratega, ma alla luce del sole, Andreotti, invece, amava la tattica silenziosa. Entrambi, infine, furono però eliminati dalla scena politica: uno dalle raffiche di mitra dei brigatisti, l’altro dagli scandali giudiziari.

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L’Aldo Moro presentato da Sorrentino è un uomo che sa perfettamente di star per morire, ma che tuttavia non perde la propria lucidità e la propria intelligenza politica. I suoi colleghi di partito non stanno facendo nulla per liberarlo, il papa, allo stesso modo, si impegna «pochino», ma le parole più dure sono proprio per “l’amico Giulio”: «Cosa ricordare di lei, onorevole Andreotti? Non è mia intenzione rievocare la sua grigia carriera, non è questa una colpa. Che cosa ricordare di lei? Un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti. Senza un momento di pietà umana. Che cosa ricordare di lei?».

E’ così che, in un lampo improvviso, in parole che fanno tremare le membra e scuotono i nostri animi assopiti, ci dimentichiamo di tutte le battute, di tutti i gesti grotteschi, dell’agopuntura, delle sagrestie e delle passeggiate notturne. E’ il giudizio di uno statista prigioniero che, infine, provoca l’infrangersi irrimediabile dell’immaginario popolare, cancellando la mitologia e riportando tutto alla più tetra e dolorosa realtà.

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E’ a questo punto che `Il Divo` fa un salto e prende il volo, arrivando a incastonarsi nella storia della cinematografia italiana. Sorrentino, infatti, riesce con la sua macchina da presa a compiere l’immaginabile,  ovvero a mettere in scena non solo un personaggio e un uomo, ma la sua astrazione e la sua allegoria. Ciò che osserviamo sotto la maschera di Giulio Andreotti, infatti, non è altro che il medesimo terribile potere che l’Italia vide nascere fra feudi e principati, che alimentò con guerre fratricide e con stragi fatte più da ombre che da esplosioni, lo stesso che, infine, nei cinquant’anni del dopoguerra, arrivò a incarnarsi in un fisico risicato e ingobbiato, sette volte a capo del Governo e mai alle vette della Repubblica.

I film di Sorrentino, tuttavia, non finiscono mai per essere abitati da personaggi stereotipati, da cattivi tout court; infatti, come vedremo Andreotti stesso affermare, al mondo non esistono né angeli né diavoli, ma unicamente mediocri peccatori. Per Paolo Sorrentino la cattiveria non è mai fine a se stessa, ma è figlia della solitudine e del disagio, e nessun uomo è mai malvagio per natura, solo per necessità, e capace, a volte, di rivelare se stesso in doti umane francamente insospettabili.

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E’ proprio dietro al farsesco tentativo di Andreotti di giustificare la propria condotta e le proprie scelte politiche, infatti, che si rivelerà la sua vera essenza, non più quella del Divo ma dell’Uomo. «Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese», gli sentiamo dire in proposito, parole vere e dolorose, dietro le quali si può rintracciare la più antica e la più terribile giustificazione dei potenti; gli uomini normali – i comuni mortali, potremmo dire -, non sanno e non immaginano neppure, ed è quindi compito di chi sa e di chi comprende di condurli al Bene, tacendo la verità che gronda sangue, quel valore atroce che decreterebbe «la fine del mondo». E che dolorosa croce da portare, che mandato divino impietoso; d’altronde, «bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene».

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Giulio Andreotti viene così umanizzato da Paolo Sorrentino, che arriva a dipingerlo nient’altro che come un uomo la cui unica fatale colpa fu quella di donare tutto se stesso al potere, credendo di servire Dio e il Bene, ma finendo unicamente per provare rimorso nei confronti delle proprie vittime, i cui fantasmi mai smisero di perseguitarlo; una creatura pietosa e profondamente sola, quindi, che unicamente nella moglie Livia fu capace di rintracciare una parvenza d’affetto. La sequenza in cui i due vecchi coniugi siedono mano nella mano davanti al televisore, dove Renato Zero è ripreso a cantare `I migliori anni della nostra vita`, entra così di diritto nella storia del cinema italiano, la sintesi perfetta di tutti gli incubi e di tutti i tormentosi rimorsi, figli di una vita consacrata perennemente all’altare sbagliato.

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Paolo Sorrentino tenta l’arduo compito di riscrivere la storia attraverso l’arte, basandosi non solo sui fatti ma, soprattutto, sulla percezione di essi, sulle supposizioni, sui pensieri, sui timori. Totalmente anticonvenzionale,  il regista napoletano si incammina fra gli stili più diversi, prediligendo su tutti il ritrattistico, con primi piani di enorme efficacia sui volti dei personaggi. Alla più spregiudicata realtà, contrappone poi gli elementi onirici e grotteschi, sottolineati spesso e volentieri da inquadrature sghembe e demenziali, con il contrappunto irriverente e disinibito della colonna sonora di Teho Teardo. Sconfina nel surreale anche la messa in scena, capace di rendere `Il Divo` un prezioso gioiello barocco, a volte abusante del proprio sontuoso e feroce scenario, ma che, tuttavia, riesce perfettamente a rendere il contrasto rispetto alla sobrietà e all’enigmaticità del personaggio principale.

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Protagonista indiscusso, infatti, rimane sempre l’eccellente Toni Servillo, giunto forse alla più ardua interpretazione della propria carriera, sempre coraggiosamente in bilico fra la caricatura e la più raffinata analisi psichica. Ingessato all’estremo a simboleggiare i 40 anni di potere e altrettanto immobilismo democristiano, l’Andreotti di Servillo è una presenza disturbante e magnetica, capace di comunicare solo attraverso gesti esasperati e una voce cantilenante e allusiva, sempre freddamente derisorio e diabolicamente grandioso nei propri momenti di tormento.

Il film, infine, arriva al tramonto contemporaneamente alle vicende del suo protagonista: è il 1992, la Prima Repubblica cade sotto Tangentopoli, e per il Divo non vi è più alcuna prospettiva politica; in seguito, solo il pallido ricordo di uno statista e di scandali giudiziari archiviati, l’elezione a Senatore a Vita e nulla di più, se non la recentissima morte. “Sic transit gloria mundi”, si dice in questi casi, oppure “Ai posteri l’ardua sentenza”; eppure, tali posteri si trovano da tempo fra di noi, hanno appena vent’anni e già non ricordano più chi fu veramente Giulio Andreotti.

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Oggi hanno a che fare con un nuovo e forse ancora più inafferrabile Divo, anch’egli famoso per le sue battute e la sua longevità, eppure totalmente privo della mefistofelica eleganza e dell’intelligenza politica del protagonista della Prima Repubblica. Riguardato oggi, quindi, `Il Divo` risulta tutto fuorché un film consolatorio: i mostri, i fantasmi e Belzebù, infatti, non se ne sono andati, non sono ricordi appartenenti al passato e al folklore, ai quali guardare con curiosità e, magari, con divertita nostalgia; sono ancora qui, in mezzo a noi, più vanitosi e più spietati che mai.

Comments
3 Responses to “`Il Divo` di Paolo Sorrentino • L’eleganza di Belzebù”
  1. SteveGale ha detto:

    Lungo geniale e denso come gli stessi film di Sorrentino.
    Brava Rigel: una ventenne con la memoria lunga di un sessantenne, che scrive bene come un autore quarantenne, ma con gli occhi curiosi e freschi della sua età.

  2. glencoe ha detto:

    grazie per la visita

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