`Brucia la notte` di Michela Monti e Tiffany Vecchietti • Burn through the witches

«Tutto bruciava, le fiamme divoravano il buio
 e liberavano la luna dal suo compito faticoso di portare luce.
Bruciavano i container, le reti elettrificate,
le armi che esplodevano diventando altre lingue di fuoco.
Bruciava come forza che ardeva dentro di me.
Bruciava la notte, e il nostro dolore con lei
»

In un presente di terrori climatici e di fascismi imperanti è raro trovare un testo di speculative fiction italiana così radicato nell’attualità come Brucia la notte (2023) di Michela Monti e Tiffany Vecchietti. Primo volume di una dilogia distopica[1] arricchita da elementi fantastici, Brucia la notte è un curioso ibrido letterario, un racconto pop dal retroterra marxista e transfemminista, pensato per unire intrattenimento e critica sociale. Un obiettivo decisamente ambizioso da parte delle autrici, che può dirsi riuscito solo in parte, ma che è senz’altro da ammirare alla luce di un panorama del fantastico italiano spesso stagnante o condizionato da miopi strategie editoriali – almeno per quanto riguarda il settore mainstream.

In Brucia la notte la “fine del mondo” è già avvenuta e al lettore vengono fornite alcune vaghe notizie in merito: dalle prime pagine, infatti, apprendiamo come la terra sia ormai ridotta a una landa desolata, con foreste devastate, fiumi prosciugati e litorali invasi dal mare, mentre il sistema economico mondiale sia sull’orlo del collasso a causa dell’esaurimento di ogni fonte di energia utilizzabile. Uno scenario davvero terrificante, ma che sostanzialmente non ci viene mai mostrato – e qui troviamo uno dei primi grandi limiti del romanzo, ossia una distopia che si limita “raccontarci” la catastrofe senza davvero rappresentarla, descrivendoci un mondo ridotto ai minimi termini senza tuttavia mai renderne visibili gli effetti. Del resto, nonostante la situazione appaia disperata, il genere umano sembra aver trovato un nuovo modo per garantire la propria sopravvivenza: utilizzare il sale del mare

Da quando avevamo prosciugato la terra dai combustibili fossili, il sale era l’essenza di tutto: scaldava o raffreddava gli edifici, faceva muovere gli automezzi, rendeva possibile la conservazione di molti prodotti, si utilizzava nei medicinali e forniva sostanze nutritive. Certo, a chi poteva permetterselo.

A questi utilizzi miracolosi del sale non viene offerta alcuna spiegazione scientifica o razionale – non è d’altronde possibile e, soprattutto, non è lo scopo del libro. Ciò che importa, infatti, è come l’emergenza climatica abbia portato all’instaurarsi di un regime politico brutale, un governo totalitario retto da un “Presidentissimo”, il cui unico fine è quello di garantire l’accumulazione e lo sfruttamento del nuovo “oro bianco”. A questo scopo, lungo i litorali sono sorti numerosi campi di raccolta, in cui, in una sorta di sistema concentrazionario, le donne vengono rinchiuse e trasformate in Raccoglitrici per poter dedicare tutta la loro vita all’accumulazione del sale. Sì, solamente le donne, in quanto gli uomini vengono viceversa cooptati nei ranghi militari e destinati a diventare degli “Integri”, membri di un gruppo di sentinelle governative dalla divisa «nera, spessa, rigida quanto i loro principi». La catastrofe ambientale finisce dunque per dar vita a un nuovo ordine patriarcale, in cui la divisione sessuale del lavoro arriva a trasformare l’antagonismo di classe in antagonismo di genere. Già da queste basi è possibile a intravedere l’anima politica di Brucia la notte che, estremizzando certe tendenze del contemporaneo, crea una distopia non del tutto implausibile, in cui la sopravvivenza del genere umano è assicurata da una classe di donne-proletarie condannate alla povertà, alla dipendenza e all’invisibilità come lavoratrici.  

Il gioco era semplice: l’oro bianco si depositava, e le Raccoglitrici lo accumulavano. Facile. Niente macchine. Non si sprecavano risorse per cercarlo. Poi, quando l’acqua vecchia era stata sfruttata, ne veniva presa di nuova dal mare per scaricarla dentro le pance delle Saline. Così il giro ricominciava, e finiva con noi. Con le nostre mani massacrate. Perché li dovevamo sentire tra le dita, quei cristalli maledetti. 

L’accumulazione del sale diventa così accumulazione di gerarchie e diseguaglianze, trasformando anche il paesaggio incantato dalle saline in una landa grigia, infeconda e morta. È in questo panorama desolante, in cui donne dalla schiena ricurva e delle mani spaccate si aggirano nell’acqua come «un branco di rane grigie», che incontriamo per la prima volta le due protagoniste del romanzo, Bianca e Ani, che iniziano a raccontarci la loro storia tramite una narrazione in prima persona e a punti di vista alternati. 

Richiuse da anni nel campo delle saline di Cervia, Bianca e Ani sono l’una l’antitesi dell’altra, così opposte da finire quasi per completarsi a vicenda. Ani è di origini turche, approdata in Italia come rifugiata politica insieme ai genitori e alla sorella Gizem, da cui però è stata brutalmente separata per venire rinchiusa all’interno campo di raccolta. All’epoca della nostra storia, Ani è una ragazza di vent’anni dai ricci selvaggi e dal «corpo prosciugato dal sale», «una che sorrideva poco e ragionava troppo», resa ombrosa, diffidente e taciturna dai lunghi anni di prigionia.

Al suo fianco troviamo invece Bianca, ovvero la sua metà speculare: biondissima, frizzante e linguacciuta, Bianca è una vera e propria forza della natura, un uragano di energia dalla personalità esplosiva e dalla parlantina indomabile, che neppure le condizioni di vita precarie hanno saputo addomesticare. «Straparlare mi sembra una visione quantomeno eccessiva di quello che faccio io […] Mi piace arricchire le conversazioni con qualche vezzo creativo, qualche voluta dorica, un soffio di foglie d’acanto». In realtà, sotto al carattere solare e alla lingua tagliente, Bianca nasconde una storia di conflitti profondi con il proprio corpo e la propria identità, una battaglia feroce approdata solo di recente a un tregua, «una pace che, per quanto precaria, le dava comunque sollievo». Senza che venga mai esplicitato, infatti, intuiamo come Bianca sia una ragazza transgender, rinchiusa all’interno del campo a causa della sua “non conformità”, secondo una politica volta a soffocare qualsiasi deviazione possa turbare il quieto vivere della maggioranza[2].  «Avevo scoperto sulla mia pelle che esisteva una terza scelta, davanti alle cose che non si conoscono: distruggere, eliminare, sradicare. Ed era la scelta che continuavano a fare loro».

Questa identità prima repressa e poi rivendicata, in uno sfoggio quasi insolente della propria unicità, rende Bianca una delle protagoniste senza dubbio più interessanti del romanzo, un personaggio dalla forza politica straordinaria, che viene tuttavia stemperata da un trattamento fin troppo macchiettistico della sua personalità. Invece di mettere in scena le ambivalenze e i tormenti interiori della ragazza, infatti, le autrici ne dissipano spesso il potenziale, trasformando Bianca in una sorta di comic relief ambulante, protagonista di capitoli “defaticanti” in cui la vediamo chiacchierare e imprecare senza sosta fino a trasformarsi nella caricatura di se stessa. Da questo punto di vista, la narrazione in prima persona e la costruzione a POV alternati non agevola le sfumature, in quanto l’istrionismo di Bianca sembra concepito più per contrastare l’ombrosità di Ani che come caratteristica autentica della sua personalità. 

Del resto, l’avere due protagoniste dai caratteri nettamente contrapposti è una scelta consapevole da parte delle autrici, che attraverso Bianca e Ani hanno voluto rappresentare due modi diversi di reagire al trauma. «Ani è quella che vive il trauma e lo porta scritto in faccia», mentre Bianca decide di affrontarlo di petto, preferendo ironizzare su ogni situazione piuttosto che subirla passivamente. Infatti, «non avendo più nulla da perdere, Bianca sfida continuamente ogni minuto di vita che ha»[3]. La rabbia di Ani e la forza d’animo di Bianca sono due ingredienti essenziali per garantire la loro sopravvivenza all’interno del campo, alimentata per il resto da audaci sogni di fuga e dal desiderio di assicurarsi un futuro migliore. La loro storia, in effetti, non è destinata ad esaurirsi tra le acque delle saline: a seguito di un attacco terroristico e di un aiuto insperato, infatti, le due ragazze riescono fortunosamente a fuggire, ignare di stare per vivere un’avventura ancor più straordinaria.

Siamo a metà del romanzo e, all’improvviso, lo scenario muta drasticamente. Voltate per sempre le spalle alle saline, Bianca e Ani si trovano infatti immerse in una realtà del tutto diversa, venendo a conoscenza di un mondo liminale di cui non sospettavano neppure l’esistenza. Il passaggio è repentino e traumatico, anche per il lettore. Appena fuggite dal campo, infatti, le due protagoniste si imbattono in qualcuno di decisamente inaspettato: si tratta di Gizem, la sorella perduta di Ani, giunta dopo anni a cercarla per condurla nei luoghi della Resistenza. Grazie a lei, le ragazze scoprono come non tutta la popolazione si sia arresa passivamente al regime, ma abbia preferito sottrarsi al suo controllo per poter vivere un’esistenza libera e anticonformista. Nelle campagne e nei borghi abbandonati della Romagna sono dunque sorte numerose Congreghe, comunità clandestine in cui donne e uomini liberi hanno imparato a sopravvivere grazie al duro lavoro e ai frutti della terra, promuovendo al contempo uno stile di vita basato sulla cura, sulla sorellanza e… sulla magia

È così che, come in ogni fiaba che si rispetti, la cupa realtà totalitaria cede il posto al mondo dell’incanto e della meraviglia, rappresentato dal borgo medievale di Dozza, dove, all’ombra della rocca sforzesca, vive la Congrega che ha ospitato Gizem e altri rifugiati.  Per giungervi occorre compiere un percorso rituale fatto di mezzi di trasporto sorprendenti e inusuali, come risciò a pedali e mongolfiere fabbricate con abiti da sposa, secondo un topos ricorrente della letteratura fantastica in cui l’Altrove è raggiungibile soltanto con metodi assurdi e stupefacenti – basti pensare alla tana del Bianconiglio per Alice o al tornado che conduce Dorothy nel mondo di Oz! I toni della distopia sono d’altronde ormai lontani, e il lettore deve fare i conti con una narrazione in cui a dominare è ora l’elemento fantastico. Come Bianca e Ani scopriranno molto presto, infatti, ad alimentare i fuochi della Resistenza non è soltanto la voglia di lottare o di rovesciare il presente status quo, ma la capacità di molti dei suoi membri di utilizzare la magia

Attingendo a una tradizione letteraria (e fumettistica) di lungo corso[4], le autrici decidono dunque di unire la lotta politica alla pratica della magia, immaginando una comunità di individui straordinari in cui ognuno è dotato di un proprio specifico potere. C’è chi come Velia è in grado di muovere e far crescere le piante, chi come Ottavia assorbe il contenuto dei libri quasi fosse linfa vitale e chi come Guido è in grado di manipolare i materiali e alterare la forma degli oggetti. Ovviamente, anche le nostre protagoniste non sono immuni da tali incredibili talenti: se Bianca, infatti, rivelerà ben presto la capacità di incantare ogni creatura vivente con il solo suono della voce, Ani scoprirà di possedere un potere ancor più singolare, il fuoco interiore di una Veggente, capace di bruciarle le viscere e di aprirle gli occhi all’arrivo di ogni catastrofe imminente. 

L’elemento fantastico nella narrazione viene introdotto in maniera decisamente repentina, tanto che il sistema magico che ne deriva presenta tratti piuttosto fumosi. Ogni potere, infatti, sembra svilupparsi come capacità innata e commisurata alla personalità dell’individuo, anche se non è chiaro cosa spinga alcune persone a possedere doti magiche e altre ad esserne del tutto prive. Allo stesso modo, non sappiamo se tali poteri fossero presenti anche prima della catastrofe o di siano sviluppati solo in seguito, così come se il regime ne sia al corrente, e abbia per questo deciso di utilizzarli o di reprimerli. Tuttavia, essendo Brucia la notte il primo capitolo di una dilogia, è auspicabile che la risposta a tutte queste domande si trovi nel secondo volume, quindi non possiamo far altro che sospendere il giudizio e attendere future delucidazioni.

Per il momento, ciò che risulta più intrigante è la dimensione identitaria che tale utilizzo della magia porta con sé, e che spinge i membri della Congrega di Dozza a identificarsi esplicitamente come “Strighe”.

Siamo Strighe. O Strie. Vedi tu come preferisci dirlo, qui li sentirai tutti e due […] Siamo Janare. Masche. Basure, in Liguria. Diventiamo Zobiane, in Veneto. Ovunque andrai, incontrerai un nome per definirci, ma il punto non cambia. Siamo donne che si sono dovute difendere da sole. Noi siamo la Resistenza che gli Integri non sono mai riusciti a cancellare.

La Strega – o Striga in dialetto romagnolo – è il simbolo vivente del “mondo alla rovescia”, un’immagine culturale ricorrente e da sempre associata al sovvertimento dell’ordine costituito. Come sottolinea Silvia Federici nel suo splendido studio sul tema[5] – senza dubbio una delle fonti da cui anche Brucia la notte trae ispirazione –, fin dal Medioevo l’appellativo di “strega” era utilizzato per identificare la donna promiscua o ribelle, la “deviante” capace di esercitare una sessualità libera e non conforme, la nubile che sceglieva di vivere libera dal dominio maschile e di mantenersi in virtù della propria intraprendenza. «Streghe erano donne pronte a prendere l’iniziativa, aggressive e lussuriose, propense a indossare abiti maschili» e spesso legate a una concezione animistica della natura, portatrici di conoscenze tradizionali ed esperte di medicina naturale, qualità che, agli occhi del potere, erano interpretate come vere e proprie forme di stregoneria. «La magia», continua infatti Federici, «si basa sulla credenza che il mondo sia animato, imprevedibile, e che ci sia una forza presente in ogni cosa», per cui ogni elemento – dalle erbe ai metalli, dagli animali al corpo umano – nasconde virtù e poteri propri. Si tratta, ovviamente, di una forma anarchica e molecolare di distribuzione del potere, tramandata di generazione in generazione, e che, in quanto tale, non poteva essere tollerata da un sistema politico e religioso fondato sull’oppressione e su principi economici di stampo capitalista. Come la storia della civiltà ci insegna, infatti, per poter essere dominato il mondo deve essere necessariamente “disincantato”.

Appare dunque particolarmente azzeccata la scelta di associare un movimento di Resistenza partigiana all’utilizzo della magia, così come quella di contrapporre il modello comunitario di Dozza al regime di oppressione rappresentato dalle saline. Come Bianca e Ani sperimenteranno in prima persona, infatti, all’omologazione alienante del campo di raccolta la Congrega sostituisce un sistema basato sull’unicità e la straordinarietà del singole individuo, mentre al corpo-macchina delle Raccoglitrici contrappone il corpo magico e divergente delle Strighe.

A meglio misurare questo iato di prospettiva, nella seconda metà del romanzo le autrici scelgono di aggiungere altri due POV ricorrenti, ossia quelli di Gizem e Ebe, due giovani donne appartenenti alla Congrega e unite tra loro da un legame d’amore oltre che di lotta. Al di là dell’elemento queer rappresentato dalla loro relazione, è interessante notare come le due nuove protagoniste siano portatrici di istanze completamente diverse rispetto a quelle di Bianca e Ani. Gizem vive un conflitto del tutto interiore, un profondo senso di colpa destinato a essere esacerbato proprio dal ricongiungimento con la sorella. L’arrivo di Ani a Dozza, infatti, costringe Gizem a scendere patti con le proprie scelte di vita, in particolare con il rimorso di aver “abbandonato” il resto della sua famiglia al regime e di aver ottenuto in questo modo la propria libertà.[6]

Ebe, al contrario, ha volutamente rinunciato al privilegio delle proprie origini per poter vivere una vita più libera e autentica, ma è allo stesso tempo costretta a confrontarsi con lo stigma di una diversità, che si riflette nelle bizze di un corpo riottoso e malato[7]. Come già avevano fatto con Bianca e Ani, dunque, le autrici sono molto abili nel costruire due personagge ben caratterizzate e portatrici di istanze politiche cruciali, sebbene, anche in questo caso, il loro potenziale sia in parte stemperato da una narrazione a tratti superficiale e non sempre efficace nel distinguere le singole voci.

Di fatto, tutta la seconda metà di Brucia la notte, significativamente più dilatata e riflessiva della precedente, è dedicata alla conoscenza delle due nuove protagoniste, così come all’inserimento di Bianca e Ani nell’ecosistema della Congrega, a cui si lega, ovviamente, la scoperta dei rispettivi poteri. Solo nell’ultimo terzo del romanzo l’azione riprende a ritmi incalzanti, grazie anche a un ampliamento delle location narrative e a un riferimento più puntuale al territorio romagnolo. Se fino a questo punto, infatti, gli unici setting ricorrenti erano stati le saline del ravennate e il borgo di Dozza, le autrici decidono finalmente di allargare lo sguardo e di sfruttare il fascino esoterico di luoghi iconici dell’appennino tosco-emiliano come la Rocchetta Mattei, il Tempo di Valadier e le grotte di Santarcangelo

È a questo punto che la scelta di ambientare Brucia la notte proprio in Romagna si rivela non casuale o dettata da mere seduzioni autobiografiche – Vecchietti e Monti sono rispettivamente originarie del bolognese e del ravennate –, ma motivata dalla necessità di rendere omaggio a un territorio spesso ignorato dalla letteratura di genere, eppure gravido di potenzialità narrative. Cristallizzata nell’immagine di patria del Duce o di culla del turismo di massa, infatti, la Romagna ha in realtà una lunga storia di resistenza al potere, con cronache e documenti d’epoca che testimoniano fenomeni di banditismo rurale e di devianza urbana fin dall’epoca napoleonica. L’immagine del romagnolo riottoso e militante arriva ancor più a consolidarsi durante il Risorgimento, quando il territorio della “Vandea rossa”, soggetto al dominio secolare della Chiesa, inizia a ospitare un reticolo di sette carbonare e massoniche, la cui influenza penetra nel territorio fino a raggiungere gli strati più bassi della popolazione. Percepiti dallo Stato come sovversivi orgogliosi e irriducibili, disposti a sopportare anche l’emarginazione, la prigionia o l’esilio, i romagnoli maturano così una sempre più spiccata identità politica e sociale, che, al netto della parentesi fascista, può dirsi intatta ancora oggi[8].

Ecco, dunque, il vero volto della Romagna, patria di banditi, partigiani … e streghe! La scarsa propensione a uniformarsi all’ordine costituito, infatti, si manifestava anche in un ordine familiare storicamente singolare, in cui a ricoprire un ruolo centrale erano innanzitutto le donne. Vero e proprio archetipo dell’identità emiliano-romagnola, infatti, è la figura dell’azdora, la reggitrice” del focolare domestico, da cui dipendeva non solo l’armonia della casa, ma anche la sopravvivenza di tutta la comunità. Numerosi, in tal senso, sono gli studi che documentano le funzioni rituali a cui le donne erano chiamate a presenziare, essendo fautrici di riti apotropaici volti ad assicurare la clemenza degli elementi e l’abbondanza dei raccolti stagionali. La gestualità precisa e secolare che ancora oggi associamo alla pratica culinaria, di cui le azdore sono assolute rappresentati, nasconde in realtà una lunghissima tradizione rituale, in cui le forze della natura potevano essere blandite grazie all’utilizzo di sale, pignatte e candele.[9]

Ritornando a Brucia la notte, il personaggio che più di tutti sembra concepito per omaggiare la figura dell’azdora è senz’altro Velia, una delle fondatrici della Congrega. Anziana signora dai capelli lunghissimi e dagli abiti sgargianti, che vive immersa nella natura e si rivolge alle sue interlocutrici con gli appellativi di “gagia” e “nani[10], Velia rimanda esplicitamente all’archetipo junghiano della Grande Madre, ovvero colei che offre nutrimento e cura, simbolo di saggezza ed elevatezza spirituale. È proprio Velia, infatti, a rivelare a Bianca – e al lettore – la vera identità delle Strighe, ed è sempre lei l’autorità a cui le protagoniste si rivolgono nel momento di maggior pericolo.

Eppure, non è Velia a presiedere la Congrega: a ricoprire la carica di Suprema, infatti, troviamo una figura femminile del tutto opposta, ossia Clarissa, donna algida e impenetrabile, simbolo di un’autorità così rigorosa da risultare quasi incomprensibile. Tanto Velia rappresenta ciò che è benevolo, protettivo e tollerante, quanto Clarissa incarna il lato più oscuro e severo della figura materna, fatto di leggi, principi e divieti. «Non si eludono le regole[…] altrimenti non sarebbero regole», la vediamo perentoriamente affermare. E ancora: «Serve fermezza, anche quando diventa impopolare, perché non tutti sono in grado di vedere cos’è necessario per mantenere l’equilibrio. Serve rigore, perché la libertà si ottiene solo in una società ordinata».

La stabilità di una società utopica come quella di Dozza, in cui «ogni persona ha il proprio ruolo che dà un equilibrio al tessuto sociale», è affascinante quanto estremamente fragile, tanto da poter entrare in crisi in ogni momento. All’azione sembra dunque essere preferibile la stasi, alla visibilità l’occultamento, alla lotta in prima linea l’inerzia nelle retrovie – «Ti sei chiesta cosa siano, in realtà, le Congreghe? […] Sono i nostri posti sicuri per sopravvivere. Qui resistiamo ai ricatti del Regime, rinasciamo. Ma proteggere tutti è impossibile». La Congrega accoglie e protegge, ma non combatte. Gli assalti suicidi e la guerriglia armata sono pane per gli Schiaduri, membri dissidenti della Resistenza che, usciti dai ranghi delle Congreghe, hanno dato vita a un gruppo militare autonomo determinato ad abbattere il più in fretta possibile il regime. Sono proprio gli Schiaduri, infatti, ad aver messo in atto l’attacco terroristico alle saline di Cervia, che ha ucciso la madre di Ani, ma che, allo stesso tempo, ha permesso a lei e a Bianca di fuggire. Le autrici pongono dunque al lettore un serio dilemma morale, che alla luce degli eventi contemporanei appare estremamente attuale. Ci deve essere un limite alla Resistenza? Vi sono azioni e comportamenti che neppure la lotta per la libertà può giustificare? Oppure tutto è lecito in nome di un ideale? Interrogativi che Brucia la notte lascia in sospeso, insieme al destino delle sue protagoniste, che nell’ultima pagina troviamo in una situazione di scacco apparentemente senza via d’uscita.

Con la promessa di un seguito imminente, Brucia la notte si conclude così con il più classico dei cliffhanger, lasciando al lettore più domande che risposte, insieme all’attesa di scoprire cosa riserverà lo sviluppo delle vicende. Alle autrici spetta un compito decisamente arduo, che è innanzitutto quello di risolvere le criticità del primo volume – in particolare, approfondire il sistema magico e optare per un trattamento più realistico e diversificato delle voci delle quattro protagoniste –, a cui si unisce, ovviamente, la necessità di fornire una conclusione soddisfacente alla storia. L’uscita del secondo volume, S’infiammano le stelle, è prevista per il 18 febbraio 2025, per cui non ci resta che attendere il giorno della pubblicazione carichi di brucianti aspettative! 


BIBLIOGRAFIA e FONTI

Per il COPYRIGHT delle immagini si veda il primo commento.


[1] L’uscita del secondo volume, intitolato S’infiammano le stelle, è prevista per il 18 febbraio 2025.
[2] Un plauso va alle autrici per la delicatezza dimostrata nell’affrontare l’argomento dell’identità di genere, fondamentale per caratterizzare il personaggio di Bianca, ma ben lontano dall’esaurire in toto la sua personalità. Nel momento in cui incontriamo il personaggio, infatti, Bianca ha già superato il proprio conflitto identitario, che emerge in maniera sporadica solo in virtù di alcuni traumi sperimentati all’interno del campo: «Eccola là, la prova della mia mistificazione alla portata di tutti! Così venivo investita dalle mie insicurezze, come se fossero amplificate e sotto gli occhi di chiunque. Le linee troppo spigolose tra il collo e la mia bocca erano l’ennesima prova tangibile della mia inadeguatezza».
[3] Si veda l’intervista “Tiffany Vecchietti e Michela Monti raccontano Brucia la notte” di Martina Borgioni per Strega in Bibliotecahttps://www.youtube.com/watch?v=WZP_tNtJ-qg&t=3s
[4] Dalla saga fumettistica degli X-Men in avanti, numerosissime sono le narrazioni che riprendono il tema della convivenza tra esseri umani e individui dotati di poteri straordinari. Tra le serie di maggior successo commerciale, alcune diventate dei veri e propri cult tra i giovanissimi, troviamo i romanzi di Ransom Riggs dedicati ai Bambini Speciali di Miss Peregrine, la saga di Shatter Me di Tahereh Mafi e, per quanto riguarda l’universo manga, My Hero Academia di Kōhei Horikoshi.
[5] Silvia Federici, Calibano e la Strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (Mimesis, 2020).
[6] Gizem è stata infatti l’unica della propria famiglia a sfuggire alla cattura, entrando a far parte della Congrega e abbandonando la madre e la sorella nei campi di raccolta. Il ricongiungimento con Ani, che per lungo tempo l’ha ritenuta morta, genera ovviamente un profondo conflitto tra le sorelle, alimentato da accuse e rancori reciproci che affondano le radici fin nella loro infanzia. La riconciliazione avviene solo nel momento in cui Ani si scopre capace di perdonare la sorella, vedendola non più come un’egoista e una traditrice, ma come «una persona che per la propria libertà aveva dovuto prendere decisioni difficili». «Mia sorella combatteva con il suo passato doloroso, per il quale non esisteva un rimedio, e tentava in ogni maniera di costruirsi una vita dopo quello che era successo. Come me. Io avevo vissuto la fatica. Lei si era sacrificata alla colpa».
[7] L’aspetto più interessante del personaggio di Ebe risiede proprio nel rapporto con il suo corpo, che prosegue e integra il discorso in parte affrontato con Bianca. L’avere a che fare con un involucro che si percepisce come ostile, che genera profondo dolore ma da cui è impossibile liberarsi, è un conflitto che chiunque soffra di una malattia cronica – o abbia un rapporto complicato con la propria identità di genere – può facilmente comprendere.
[8] Cfr. Roberto Balzani, La Romagna. Storia di un’identità (Il Mulino, 2012).
[9] Diversi studi di recente pubblicazione approfondiscono la figura della strega e, più generale, il tema della magia popolare in ambito emiliano-romagnolo. In particolare, vale la pena citare Streghe, malefici e magia popolare in Romagna. Tra storia e folklore (S. Camporesi e E. Baldini, Il Ponte Vecchio, 2022) e Romagna arcana. I folletti, le fate, la vecchia, la borda, i draghi e altri esseri fantastici ed entità misteriose (E. Baldini, Il Ponte Vecchio, 2021). A proposito della figura dell’azdora: La cucina dell’arzdora. Dal lunedì al sabato (G. Bravetti Magnoni, Panozzo Editore, 2015).
[10] Termini dialettali tipici dell’area emiliano-romagnola con cui le nonne sono solite a chiamare le loro nipoti.

Comments
One Response to “`Brucia la notte` di Michela Monti e Tiffany Vecchietti • Burn through the witches”
  1. Avatar di Laura G. RigelGrace ha detto:

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