`Il mio nome è rosso` di Orhan Pamuk • Io sono la Miniatura

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Leggere un romanzo di Orhan Pamuk è come compiere un lungo viaggio, un cammino in grado di condurci verso sogni ad occhi aperti e mete inaspettate, per poi riportarci sempre a casa, un po’ diversi ma maggiormente consapevoli di noi stessi e del mondo che ci circonda
Leggere un romanzo di Orhan Pamuk, infatti,  può esserci di grande aiuto per capire il tempo che attraversiamo, le sue contraddizioni e le sue miserie, contemplandolo dalla posizione privilegiata di un’altra epoca e di un altro mondo, senza tuttavia nutrire l’arrogante pretesa di entrarne a far parte.

In virtù di ciò, romanzi di Orhan Pamuk non hanno la velleità di connettere fra loro realtà diverse ma, anzi, quella di scomporle incessantemente in una moltitudine di storie collettive e individuali, mostrando come sia proprio la varietà di esperienze il fattore determinante della nostra esistenza, lo stesso capace di condurci a un qualche cosa di universale.

Nella poetica e nel pensiero di Pamuk, infatti, a dominare non è mai un’unica e esclusiva verità, ma a farla da padrone è la contraddizione, la diversità, l’opposizione, il paradosso. Quando l’11 Settembre si abbatte sull’Occidente, per esempio, lo scrittore non esita a ricordare l’umiliazione di un mondo arabo e mussulmano oppresso e mortificato dall’arroganza occidentale; mentre solo 4 anni dopo, nel 2005, intervistato da un giornale svizzero, lo stesso Pamuk avrà la sfacciataggine di rievocare alla memoria del mondo l’eccidio armeno, una verità che gli costerà l’ostracismo dalle sue terre di nascita.

In un’epoca in cui tutti parlano di guerra fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Pamuk arriva dunque a ricordarci come Oriente e Occidente abbiano prima di tutto la necessità di vivere in armonia l’uno accanto all’altro, restando comunque se stessi, senza perdere irrimediabilmente la propria natura. Se tali nature non riescono a convivere, infatti, è solo perché hanno perso la memoria di ciò che sono, fondendo le molteplicità in un’unica identità, quella cristiana per l’Europa e quella islamica per il mondo arabo. Ricordare, avere memoria di ciò che è accaduto, diventa dunque essenziale per distinguere le infinite varietà di colori di una storia che continuerà instancabile a scintillare, anche quando il ricordo sarà orrido e provocherà vergogna.

E’ su queste convinzioni che Orhan Pamuk compone nel 1998 `Il mio nome è rosso`, un vero e proprio vortice di colori e di ricordi, una robusta favola in cui sia l’Oriente che l’Occidente svolgono una parte da protagonisti. `Il mio nome è rosso` è un possente scritto a più strati, un’opera multiforme che di pagina in pagina assume le sembianze di una tenebrosa storia di delitti notturni, per poi, attraverso una superba architettura intellettuale, reincarnarsi in un libro di miniature, terminando infine come il più travolgente dei romanzi d’amore.

21Il teatro delle vicende è un’imponente e meravigliosa Istanbul cinquecentesca e i personaggi in scena sono molteplici e variegati come il romanzo di cui sono protagonisti. Moltissime voci si intrecciano in questa lirica di pensieri, ognuna con il proprio suono e il proprio colore, perfettamente distinguibili le une dalle altre, sebbene a parlare possano essere miniaturisti e calligrafi, oppure cadaveri, spettri o  mendicanti, o ancora cavalli, alberi e monete. Anche Satana riuscirà a prendere la parola per un attimo, per dare la propria versione dei fatti riguardo a un mondo che appare ancora più malvagio e corrotto di quanto lui stesso si sforzi di farlo sembrare.

Tutti i narratori che si alternano nel libro sono portatori di un punto di vista diverso o, almeno, questo è ciò che Pamuk ci porta a credere; il lettore sarà poi spiazzato dal finale, quando Şeküre, la protagonista femminile, rivelerà come il narratore sia unico (suo figlio, Orhan), il quale ha mentito, inventandosi il pretesto che il disegno di un cane, di un colore o di un albero potessero parlare, dando così, invece, solo e unicamente la propria versione dei fatti. Allora tutto si offusca, si opacizza e diventa paradossale, nel perfetto stile di Pamuk, che rimette in gioco tutti i ruoli: autore, narratore e lettore.

Ma, allora, nella realtà dei fatti, Nero è proprio il personaggio pavido e stralunato che ci viene descritto? E Şeküre è davvero così bella, spigliata e intelligente come appare? Ovviamente a nessuno è dato saperlo, ma forse non è neppure così importante. Pamuk si prende gioco del proprio ideale lettore, confondendolo attraverso continue e differenti rappresentazioni della realtà, tutte diverse e fallaci, irretendolo e ingannandolo, e dimostrandogli come  la storia romanzata sia solo un pretesto per raccontare qualcos’altro.

Quindi, se il fulcro del romanzo non è quello di scoprire chi è il vero assassino del povero Raffinato Effendi, il primo a prendere la parola nella storia, da morto, con la testa fracassata in fondo a un pozzo, il vero scopo del narratore qual è? Su cosa deve focalizzarsi l’attenzione del lettore? Beh, senza dubbio sulla miniatura.

Non a caso tutto inizia con la stesura di un libro di miniature commissionato dal Sultano stesso all’onorabile Zio Effendi, capo miniaturista dalle ampie vedute; queste miniature, tuttavia, non dovranno essere come le altre: verranno infatti dipinte prendendo come punto di riferimento lo stile occidentale, arrivando pertanto a comporre un’opera malsana, profana al punto tale da generare la folle catena di menzogne e intrighi capace di sconvolgere radicalmente il mondo dei nostri protagonisti.

Nel 1591 le miniature, infatti, non erano dipinte secondo un solo punto di vista, come lo era la pittura europea, ma secondo molteplici angolazioni. C’era innanzitutto il doratore, che decorava soltanto i bordi delle pagine, gli arabeschi e qualche particolare delle vesti; a seguire il miniaturista che, con precisione certosina, dipingeva una ad una le foglie degli alberi, che rappresentava le nuvole ricciute alla maniera cinese e imprimeva su carta il volo degli uccelli, in un cielo di un oro irreale; qualcun altro, invece, aveva il compito di disegnare uomini dalle teste piccole e dai corpi flessibili, donne dalla pelle di alabastro e dagli occhi a mandorla, e cavalli con i colli arcuati come le lettere del Corano.

Lo sguardo del miniaturista non era il suo sguardo, ma era quello di Allah; il mondo che immaginava e rappresentava, dal frutto sull’albero al possente guerriero, era fatto a immagine e somiglianza di ciò che solo un Dio poteva creare o vedere. Il pittore guardava il mondo dall’alto, al di sopra del cielo, e alla mente sovrana della divinità affidava il tocco delicato e obbediente dei propri pennelli.

Ogni artista era teso all’apoteosi, al culmine di tutte le cose del Creato, rappresentato dal colore rosso: un colore degno di un Dio e, pertanto, non intimorito dalla luce, dall’ombra o da altri colori. La vita, infatti, comincia, si svolge e muore nel rosso. Il rosso è il colore degli abiti delle donne che irretiscono l’occhio dell’uomo, è il colore delle cerimonie e del talamo nuziale di un matrimonio consumato; rosso è  il colore del sangue di un parto o di una ferita, rosso è la sella del cavallo, è il fodero di una spada, è la bocca spalancata in un urlo… Rosso è il colore della morte.

«Se lo toccassimo con la punta delle dita, avremmo una sensazione di qualcosa tra il ferro e il rame. Se lo prendessimo in mano, sentiremmo bruciare. Se lo afferrassimo, lo sentiremmo pieno come un pezzo di carne salata. Se lo prendessimo in bocca, la riempirebbe. Se lo annusassimo, avrebbe l’odore del cavallo. Se profumasse di fiori, sarebbe simile alla margherita, non alla rosa rossa.»

I miniaturisti, fiduciosi del proprio metodo come in Allah, interpretavano l’uso dei diversi toni del rosso come una goffaggine da giovane apprendista, indeciso e debole, incapace persino di mescolare i colori. Per i miniaturisti della tradizione esisteva solo un unico rosso. E occorreva credere solo in quello.

Il fragilissimo e stupefacente mondo della miniatura viveva di tradizioni antiche di secoli, che si perdevano nelle leggende di vecchi miniaturisti ciechi e di pittori morti per amore della propria arte; eppure, nel 1591, l’arrivo in Turchia della pittura europea stava per spazzare via tutto questo.

Da Venezia e dall’Europa degli infedeli, giungevano infatti i  capolavori occidentali e il loro inconfondibile realismo. In quei dipinti c’era tutto ciò che noi siamo abituati vedere, impresso su tela come una fotografia. Non più figure umane tutte uguali, bloccate in espressioni di eternità, ma volti reali, fatti di imperfezioni, con rughe e  smorfie, luci e ombre. Lo sfondo non era più un mare di colore uniforme, ma vi era una prospettiva, che poteva mettere anche il ritratto di un cane in primo piano, lasciando l’uomo sullo sfondo; c’erano le città, con le piazze e i campanili, c’erano le montagne, con le spaccature e gli abissi, c’erano le battaglie con i cavalli, che non avevano più il collo arcuato, ma imitavano i veri cavalli di Dio.  Il pittore europeo disegnava ciò che il suo occhio vedeva, nulla di più.

E poi c’erano i ritratti. Vescovi, papi e cardinali, re e aristocratici, ma anche sarti, droghieri e marinai, chiunque aveva il proprio ritratto, come se volesse sentirsi diverso da tutti, differente, unico. Questi personaggi si erano miracolosamente trasformati in personalità, che avevano un po’ più di spazio nel mondo semplicemente perché erano stati ritratti. Il ritratto aveva conferito loro qualcosa di magico, li aveva resi straordinari, in grado comprendere meglio la propria esistenza. Niente come questo era più lontano dall’impersonale miniatura turca, che rappresentava unicamente  l’archetipo perfetto di ogni cosa, persino quello del volto umano.

Se i pittori occidentali avessero prevalso, il mondo sarebbe completamente cambiato. La miniatura sarebbe anch’essa diventata la rappresentazione del particolare, fedelmente imitato dalla realtà, e non più la mente e la memoria di Allah riflesse su carta. In quel momento sarebbero scomparsi anche i purissimi colori dei miniaturisti, uniformi, luminosi: i cieli dorati, le acque argentate, il suolo celeste. Sarebbe scomparso il bianco d’avorio, il verde delle foreste, il tenero rosa salmone e persino il rosso di Allah. E con loro, lentamente, si sarebbe spenta anche la miniatura.

Ne `Il mio nome è rosso`, le notti e i giorni di un’Istanbul ormai perduta ci vengono rappresentanti da Pamuk attraverso l’eco e il riflesso delle miniature che avvilupperanno e arricchiranno tutta la narrazione.

Per un attimo sotto i nostri occhi sarà quindi inverno, la stagione del silenzio: i muri e i tetti ricoperti di neve, le luci fioche, un bianco irreale capace di ricoprire una città e i suoi delitti. Assassini di cui non sapremo il nome vagheranno per le strade come anime in pena e nelle case si cercherà di ritrovare quel calore che il mondo sembra ormai aver perduto per sempre.

Alle prime luci dell’alba apparirà invece Istanbul in tutto il suo splendore, con i suoi palazzi, le piazze, le moschee, i minareti e la reggia del Sultano, ma anche con le botteghe dei barbieri e dei sarti, dei fabbricanti di spade e di stivali. La folla si riverserà per le strade e si raccoglierà nei mercati; ruffiane venditrici di corredi correranno di casa in casa a trasmettere messaggi d’amore, i laboratori di miniatura si apriranno e nella penombra, per proteggere gli occhi dalla cecità, i miniaturisti daranno avvio alla loro splendida ed estenuante arte. Giallo, rosso, blu, verde, celeste: in un vortice di colori udiremo i rumori moltiplicarsi, vecchi mendicati ciechi e folli strillare furiosi, i cani idrofobi ululare e qualche bambino piangere.

Nel frattempo il lavoro di Zio Effendi per il Sultano starà per essere terminato. Sarà l’opera realizzata per celebrarne la potenza, ma anche il Libro dei Morti. Il doratore Raffinato, infatti, è sepolto in un pozzo: la sua anima si divincola inutilmente cercando di lasciare il corpo sfigurato e martoriato di cui si ritrova prigioniera; un altro miniaturista si trova invece riverso nel suo studio, immerso in un lago di sangue rosso, la testa fracassata dallo stesso strumento del suo lavoro.

Infine, ritornerà a scendere la notte. Le porte si chiuderanno, perché a quest’ora per le strade sono soliti ad aggirarsi solo i fantasmi, le streghe e i ginn trasportati dal vento, capaci di penetrare negli oggetti e nelle menti facendole impazzire; saranno quegli stessi spiriti che ritroveremo abitare all’interno di ruderi e case vuote, a lanciare al cielo il loro lamento senza pace, gli unici veramente a compiangere la miseria delle cose terrene.

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