Jean-Baptiste Adamsberg • L’Indagatore del mondo che fluttua

1996. Francia, Parigi: la culla dei sognatori senza speranza.
Parigi, la città di pietra, in grado di restituire il mondo minerale a chi ha trascorso la sua vita sulle montagne. Parigi, la città delle luci, con la sua bellezza imperitura, la sua arte e i suoi boulevard interminabili, pervasa dal profumo di pane fresco, di carta e di fumo.
E’ proprio in un bistrot di Parigi che incontriamo per la prima volta Jean-Baptiste Adamsberg. Non è un incontro programmato o desiderato: è casuale, fortuito. Vediamo questo piccolo uomo silvestre seduto lì, a girare il cucchiaino nella tazzina di un caffè ormai quasi freddo, e semplicemente non riusciamo a staccargli gli occhi di dosso.
Nessun cenno da parte sua, probabilmente non ci ha neppure notato, talmente è perso nella contemplazione dell’edificio del commissariato dall’altra parte della strada. Nulla, tuttavia, ci impedisce di avvicinarci e di sederci di fronte a lui, silenziosamente, completamente affascinati da quella figura scura che tanto stona in un luogo chic e lezioso come il bistrot del XIII arrondissement.

Osservando Jean-Baptiste Adamsberg dall’esterno, a tutto si penserebbe fuorché a un commissario. Il volto già di per sé assomiglia a una caricatura, a un qualcosa di indefinito, un’accozzaglia di più facce che, tuttavia, nel suo insieme, è in grado di generare un qualcosa che si potrebbe addirittura definire “bello”. E’ un processo davvero strano quello che la nostra mente compie nell’osservare quel guazzabuglio di tratti casuali, apparentemente composti a dispetto di qualsiasi armonia classica: il naso, infatti, è troppo grosso, gli sono occhi vaghi e all’ingiù, la bocca leggermente storta, indefinita, eppure con una forma vagamente sensuale. Un bel rompicapo questo Adamsberg.
Sembrerebbe quasi che Dio, al momento di crearlo, si fosse trovato privo di materiali; resosi improvvisamente conto del dilemma, probabilmente era stato costretto a chiedere aiuto a qualcuno, magari al “Collega” di sotto, che doveva avergli donato qualche avanzo di magazzino, insieme all’indifferenza, alla duttilità e all’elasticità; insomma, tutti materiali che non si sarebbero mai e poi mai dovuti trovare insieme! Eppure Dio, consapevole del problema, si era messo davvero molto d’impegno e, con un colpo da novanta, inspiegabilmente, aveva generato un vero e proprio capolavoro.
Mentre siamo ipnotizzati a osservare i particolari sfuggenti di quel volto straordinario, Adamsberg finalmente si accorge di noi e, intuendo la nostra incontenibile curiosità, inizia a narrarci la sua storia. La sua voce è calda e tranquilla. Ci chiede scusa in anticipo, perché il suo modo di parlare lento e pacato molto spesso è capace di far addormentare i suoi ascoltatori. A noi non importa granché, quindi decidiamo di chiudere gli occhi e di lasciarci cullare da quel timbro basso e caldo, permettendo alla nostra mente di viaggiare ovunque il nostro interlocutore abbia il piacere di condurla.

E’ così che Adamsberg inizia a narrarci della sua infanzia e della sua giovinezza, vissute a piedi nudi fra le montagne pietrose dei bassi Pirenei. Lì aveva abitato, dormito e amato per la prima volta, e sempre lì aveva maturato la decisione di diventare sbirro, iniziando a lavorare sugli omicidi compiuti nei villaggi di pietra, nelle casupole solitarie o lungo i sentieri minerali. In soli cinque anni, Adamsberg era stato in grado di risolvere uno dietro l’altro ben quattro omicidi, in una maniera che i suoi colleghi avevano non a torto reputato allucinante, ingiusta e provocatoria. Apparentemente Adamsberg non faceva nulla, se non ciondolare senza scopo, osservare le nuvole e scarabocchiare su fogli di carta, per poi arrivare un giorno, con indolenza e sicurezza, a puntare il dito contro un colpevole, che, come per uno strano prodigio, si rivelava inspiegabilmente sempre quello giusto.

Grazie a questo indecifrabile talento, la creatura silvestre dei Pirenei si era così ritrovata prima ispettore e poi commissario; era stata quindi costretta a lasciarsi alle spalle le rocce, i boschi e la scrivania coperta di graffiti, sulla quale aveva disegnato per ben vent’anni, per poi trasferirsi a Parigi, l’unica città di Francia in cui sentiva di poter riuscire a rivivere una parte della sua terra natia.
Adamsberg improvvisamente smette di parlare: è giunto per lui il momento di lasciarci. Ci saluta, con un impercettibile cenno del capo, per poi avviarsi lentamente verso il commissariato; dal canto nostro, non ci resta nulla da fare, se non continuare ad osservarlo mentre si allontana, sospesi in un limbo in cui il sogno è verità e la letteratura diventa realtà concreta.

Difficile comporre un ritratto esauriente di una personalità multiforme e sfaccettata come quella di Jean-Baptiste Adamsberg, lo «spalatore di nuvole», un commissario dal valore di 10 milioni di copie. Neppure la sua autrice, Fred Vargas, è in grado di dire con certezza da dove sia spuntato fuori tale oscuro personaggio, se dalla realtà, dal suo inconscio o da un sogno; probabilmente, da tutte e tre le cose insieme! Ciò di cui, invece, si può star certi è come nessun lettore o appassionato giallista potrà mai rimanere indifferente all’indole sognante e alla Weltanschauung di questo straordinario protagonista della letteratura contemporanea.
Ciò che, forse, risulta più affascinante in Jean-Baptiste Adamsberg è come, nonostante il trascorrere del tempo e delle avventure, egli rimanga per il lettore – così come per i suoi compagni di viaggio – un oggetto fondamentalmente oscuro, inesplorato. Nessuno può dire di saper tutto di lui, di poterne penetrare la psicologia in profondità o di capirne la logica: i suoi contorni rimangono sempre e comunque indefiniti, fumosi, fluttuanti. Jean-Baptiste Adamsberg, insomma, arriva a rappresentare uno di quei rari casi in cui il protagonista di un romanzo è in grado di superare i confini dell’opera stessa che lo contiene, in quanto così profondo, complesso e articolato da incarnare già di per sé un universo a parte. C’è la storia e c’è il suo protagonista, Adamsberg, ed è inutile dire come, quando questi due elementi arrivano a incontrarsi, la prosa e le vicende narrate diventino di una bellezza disarmante.

Tutti gli altri personaggi, dal canto loro, per quanto interessanti, empatici o affascinanti, a contatto con Adamsberg non hanno scelta alcuna, se non quella di allinearsi alla sua ombra ed iniziare a ruotare intorno al suo microcosmo ricco di meraviglie. Adamsberg è l’inizio, il fulcro e la risoluzione di tutte le vicende, e i lettori, così come la stessa Fred Vargas, non possono fare altro che adeguarsi a tale presa di coscienza e lasciarsi, a loro volta, trasportare.
E’ oggettivamente impossibile iscrivere la natura di Adamsberg secondo un ragionamento logico o un parametro concreto: ciò con cui dobbiamo confrontarci è infatti il trionfo di un’anarchia costellata da impulsi e fantasticherie che, tuttavia, tramite vie misteriose e sconosciute, è capace di condurre il nostro protagonista a innegabili successi. Adamsberg è contemporaneamente solido come le rocce dei suoi Pirenei, impalpabile come il vento, fluttuante come l’acqua e appassionato come il fuoco, ed è proprio questa miscela di elementi che arriva a costituire le fondamenta del mondo di cui è demiurgo, senza che in realtà vi sia alcun nesso ragionevole a presiedere tale unione. Adamsberg è il signore del caos: capace di confondere i livelli di analisi, di invertire le tappe, di giocare con le definizioni e di disperdere le connessioni, è in grado infine, complice la sua incredibile lentezza, di trarre una verità assoluta da siffatto disordine primordiale e di farne dono al mondo. E’ facile a questo punto capire come una tale caratteristica nelle mani di un poliziotto possa arrivare a risultare estremamente imprevedibile e pericolosa.

Per un assassino, infatti, anche per il più astuto, l’ideale è quello di trovare uno sbirro che sia possibile far reagire, che possa essere afferrato, aggirato o attaccato. Adamsberg, al contrario, mescolando le grandi idee e i piccoli particolari, combinando fra loro impressioni e realtà, è capace di scorrere via come l’acqua, per poi, al momento opportuno, iniziare ad opporre la granitica resistenza di una roccia. Grazie infatti alla sua dolcezza e a quell’indifferenza priva di motivazione, e grazie soprattutto a quella sua malsana abitudine di fondere fra loro «le credenze dei bambini con la filosofia dei vecchi», Adamsberg è in grado di risultare agli occhi di chiunque sfuggente, fluttuante, inafferrabile. E in tutto questo, comprensibilmente, un assassino può finire annegato.

Meraviglioso, non trovate? Eppure, in verità, non occorre stupirsi più del dovuto: il commissario Adamsberg, semplicemente, non è come tutti gli altri. La sua visione del mondo, infatti, è duplice; mentre le persone normali riescono perlopiù a distinguere ciò che è realtà da ciò che è pura fantasia, Adamsberg è in grado, al contrario, di intravedere quel sottile e fumoso limbo capace di celarsi fra le due. Jean-Baptiste Adamsberg è l’indagatore del mondo che fluttua: fuggevole ai comuni mortali, la realtà fluttuante non è altro che l’universo delle impressioni e delle idee, delle contraddizioni e delle tracce, degli errori… e delle ombre. Un dono veramente straordinario quello di riuscire a penetrare in tali reconditi meccanismi della mente umana, una virtù che, tuttavia, talvolta è capace di tramutarsi in una vera e propria maledizione.

Quanto possono infatti arrivare ad annoiare le persone! Adamsberg troppo spesso sa già in anticipo ciò che diranno, cosa faranno o come si rivolgeranno a lui; e arriva a maledirsi per questo, a trovarsi odioso, insopportabile, tanto da supplicare un Dio qualunque di concedergli, almeno per un giorno, la meraviglia della non-conoscenza, il sollievo dell’ottusità e dell’impotenza, una mediocrità in cui poter finalmente rintanarsi ed essere dimenticato. Purtroppo, ciò è di fatto impossibile, e sono proprio quei momenti, quelli in cui Adamsberg si rende conto di aver avuto ragione, nonostante tutte le ragioni del mondo affermassero il contrario, che arrivano ad opprimerlo, a togliergli l’aria, ad annientarlo. Questa natura, così contraria ad ogni logica e ad ogni fattore empirico, per Adamsberg non poteva essere nient’altro che il dono pernicioso di una fata ignorante, probabilmente offesa per non essere stata invitata al battesimo di quel figlio dei Pirenei, che aveva così deciso, come punizione, di affibbiargli la preveggenza del male e dell’orrore ove per chiunque altro erano ancora invisibili.

E’ tuttavia proprio questa beffa del destino, il dono della fata arrabbiata, a risultare estremamente utile per il mestiere di poliziotto, in quanto permette ad Adamsberg, ogni volta, di individuare la falla, l’errore, ciò che non funziona, l’elemento estraneo che, molto spesso, giunge a identificarsi in quella che egli definisce come “crudeltà”. La convinzione di Adamsberg in proposito è che per chiunque si appresti a compiere un delitto non sia sufficiente solo un fermo movente, e neppure il sostegno del dolore, dell’umiliazione o della nevrosi accumulata negli anni: fondamentale, infatti, è il ruolo svolto dalla crudeltà, ossia dal piacere tratto dalla sofferenza altrui, dallo strazio, dall’agonia, dalle suppliche. E’ qui che il talento di Adamsberg si manifesta in tutta la sua potenza, ovvero nel rintracciare in maniera tangibile tale crudeltà, come se fosse un’escrescenza sulla pelle, un qualcosa di mostruoso e abominevole suppurante dagli abissi più profondi dell’essere. Adamsberg è capace di vedere tale nauseabondo magma letteralmente trasudare dalla persona dell’assassino, scorrere sulla labbra e colare dagli occhi, con la stessa nitidezza con cui ciascuno di noi può vedere uno scarafaggio correre sul tavolo.

Tali momenti di illuminazione, tuttavia, sono per Adamsberg tanto potenti quanto rari; con la sua indole lenta e paziente, lo «spalatore di nuvole» si limita unicamente ad aspettarli, riservandosi per il resto del tempo di vivere alla giornata. Pare, infatti, che più Adamsberg si ritrovi costretto ad affrontare problemi pressanti, capaci di arrivare ad assillarlo per la loro urgenza o per la loro gravità, più il suo cervello si limiti a “fare il morto”, rifiutandosi categoricamente di innescare quella scintilla in grado di alimentare l’incendio del suo talento. E’ così che, in questi casi, ad Adamsberg non resta molto da fare se non vivere di piccolezze e di inezie, con l’anima sgombra e il cuore vuoto, libero dai problemi del pianeta, in attesa di quell’ulteriore e tanto atteso colpo di genio che mai sembra voler arrivare per davvero.
Con il lento scorrere del tempo, come è facile immaginare, tale inerzia di vivere inizia tuttavia a sortire i propri danni. Tutto il mondo intorno ad Adamsberg, infatti, inizia progressivamente a perdere colore, mentre gli esseri umani sembrano diventare trasparenti, ombre tutte uguali, prive di spessore, vittime sacrificate sull’altare della propria quotidianità, la stessa dalla quale anche Adamsberg si lascia trascinare inerte. E’ in quei momenti che il commissario finisce per estraniarsi dal mondo che lo circonda, per non essere più presente per nessuno, privandosi infine anche di se stesso, in quanto ormai incapace di provare un qualsiasi tipo di sentimento, che sia anche solo il sentore angosciante del vuoto o i tormenti della noia.
Tale condizione passiva nei confronti della vita e degli avvenimenti che, di tanto in tanto, Adamsberg si ritrova a dover affrontare, è capace spesso e volentieri di condurlo sull’orlo del precipizio, arrivando ad intaccare conseguentemente il suo rapporto col mondo e, in particolare, con i suoi affetti, prima fra tutti Camille. Camille, così bella e misteriosa; Camille, dalla figura lunga e sottile; Camille, con quel profilo perfetto e definito, che non si sa mai se prima disegnare oppure baciare.

Camille, nel corso delle narrazione, arriva a rappresentare il perfetto alter ego di Adamsberg: sfuggente, oscura e indecifrabile, si dimostrerà infatti un’eroina capace di abbandonare l’uomo che ama, così, di punto in bianco, dopo una notte d’amore, sussurrandogli semplicemente all’orecchio di lasciarla andare. E’ infatti in questo modo che, una mattina d’inverno, semplicemente Camille decide di sparire, di fuggire lontano senza un apparente motivo, completamente libera, sperduta, inafferrabile. Adamsberg non è in grado di spiegare neppure a se stesso come mai egli, dal canto suo, non abbia nemmeno provato a trattenerla, perché abbia lasciato la sua Camille, il suo “tesorino”, al resto del mondo. Probabilmente perché Camille, per definizione, non può appartenere a nessuno, tanto meno a lui: come il vento, che non sceglie mai fra i rami di quale albero soffiare, la sua amata infatti sa sempre capire quale è il momento giusto in cui andarsene.
Adamsberg, fin dal principio, comprende con certezza come il suo ricordo non sarà mai destinato a liquefarsi nella mente di Camille: un pezzo di se stesso, un giorno lontano, aveva infatti deciso di posarsi nel suo profondo, e per quanto la ragazza cercasse di seppellirlo, di nasconderlo o di dimenticarlo, questo avrebbe inesorabilmente continuato ad opporle una flebile resistenza, ad accompagnarla, ad appesantirla: un frammento d’amore magnetizzato che mai più l’avrebbe abbandonata.

Questa consapevolezza diventa per Adamsberg contemporaneamente una benedizione e un qualcosa da cui rifuggire. Ama Camille, eppure ha persino paura di scriverlo, nero su bianco, in forma concreta, sulla pagina bianca di un taccuino, perché terrorizzato da cosa quel dannato in sentimento sia in grado di comportare. Quell’amore, iniziato semplicemente come un affetto instabile, sfociato poi nell’incendio divampante di una passione, per un attimo aveva infatti rischiato di trasformarsi in qualcosa di più solido capace di spaventare entrambi. Infatti, cosa rimane dell’amore, quando il fuoco ardente della passione arriva mano a mano ad estinguersi? Una stanza, quattro mura e un focolare, un vera e propria trappola da cui Adamsberg sapeva non sarebbe stato mai più in grado di fuggire.
Perciò, seppure con dolore, Adamsberg si era così trovato costretto a sfruttare la natura volatile della sua Camille che, con la sua cauta sentimentalità e il suo reiterato assenteismo, lo aveva preceduto sempre di una lunghezza. Camille sapeva, aveva sempre saputo cosa in realtà Adamsberg temesse più di ogni altra cosa, perciò aveva deciso di condurre la partita del suo amore in sordina, in maniera delicata e benevola, per poi prendere il volo, appena Adamsberg le avesse offerto uno spiraglio di aria aperta. Era scappata, di nuovo, per il bene di entrambi; questa volta forse per sempre.

E’ proprio in momenti come questi, quelli in cui Adamsberg si trova vulnerabile e solo, abbandonato per l’ennesima volta da Camille nel proprio mondo fluttuante, che il nostro commissario inizia a percepire l’assoluta necessità di ritrovare qualcosa di se stesso e di riportare un po’ di ordine nella propria vita. Ed è così che vediamo Adamsberg cercare un angolino nascosto, appartato, un luogo abbastanza selvaggio per permettere alla sua mente di lasciarsi andare liberamente, ma per niente bello, perché la bellezza crea distrazione ed è decisamente scomoda per poter pensare.
Una volta trovato il suo rifugio, Adamsberg se ne sta lì, a giocare con la corrente di un fiume o con i ciottoli del sottobosco, ritrovando per un attimo la selvatichezza e la solitudine abbandonate nei Pirenei. Lì chiunque è sicuro di poterlo ritrovare; ed è sempre lì che anche noi lettori, per nostra somma fortuna, sappiamo che lo «spalatore di nuvole» ci sarà ogni volta che avremmo bisogno di lui.
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