`Il buio oltre la siepe` di Harper Lee • You must never kill a Mockingbird
Quella de `Il buio oltre la siepe` è una storia di margini. I margini sono un confine labile, fumoso, liminale, decisamente strano. Per viverci occorre rinunciare alla possibilità di difendersi, accantonando la propria dignità e permettendo agli altri di vederci come piace a loro.
Per alcune persone è conveniente vivere una vita marginale e difficile, al contrario, accettare che quel posto ovattato di pregiudizi possa essere ricoperto da qualche altra persona. Per altri ancora, invece, i margini non sono una scelta: sono il luogo in cui sono nati e in cui saranno costretti a crescere e invecchiare, rinchiusi dal costume e incatenati dall’odio, dall’intolleranza e dalla povertà.

Anche Jean Louise “Scout” Finch è costretta a sguazzare nei margini. Ha solo sette anni, ma è una ragazzina spericolata, un “maschiaccio” che odia la scuola e che preferirebbe di gran lunga rimboccarsi i pantaloni di tela e lasciarsi dondolare dentro un vecchio pneumatico piuttosto che mettersi il vestitino di taffetà e comportarsi da brava bambina. Eppure Scout è anche un’eroina, attiva e perspicace: non è la principessa chiusa nel castello da salvare, ma è una bambina piena di energia, che ama contestare, fare domande irriverenti, dire parolacce e prendere a pugni i coetanei troppo scortesi. Caratteristiche che possono tornare utili quando si vive in un’insignificante paesino di provincia del Sud degli Stati Uniti, soprattutto se la tua “madre letteraria” vuole esorcizzare il suo passato con un libro.
Infatti, nelle fattezze insolenti di Scout, è facile intravedere la personalità di Harper Lee, nata a e cresciuta negli anni ’30 a Monroeville una piccola cittadina dell’Alabama che, all’epoca della sua infanzia, discuteva ancora se accettare oppure no l’energia elettrica.

Bambina sgraziata e sottostimata, anche Harper Lee sperimentò la vita dei margini, non riuscendo mai a integrarsi completamente a scuola. A otto anni prese sotto la sua ala protettiva un vicino di casa, un piccolo bambino rachitico e effeminato, che, nel corso degli anni, si sarebbe rivelato l’enfant prodige della letteratura d’oltreoceano: Truman Capote. Negli anni ’30, però, Harper e Truman erano ancora due bambini strani e brutti, agli estremi della società e del piccolo mondo scolastico.
Come la sua eroina Scout, Harper, nonostante l’amore per la lettura, amava la vita campestre, giocava a football e non esitava a malmenare chiunque osasse ledere l’onore di Truman, spesso insultato e tartassato. Ma soprattutto, come Scout, era figlia di un integerrimo avvocato di provincia, Amasa “A.C.” Lee, e sapeva che il suo destino sarebbe stato quello di intraprendere la carriera di magistrato, laureandosi in Giurisprudenza, per ripagare il padre dei molti anni di immutabile affetto e attenzione, affiancato solo da una madre deformata dalla malattia mentale.
Intraprendente e pronta al sacrificio, la giovane Harper andò all’Università, ma, anche in questo caso, si ritrovò esclusa: un disastro di ragazza allampanata, ancora una volta ai margini rispetto alla società di brave signorine tutte casa, chiesa e matrimonio. L’amore per il padre, infatti, non poteva nascondere la cruda verità: Harper detestava gli studi di Legge.

Così, per una volta nella sua vita, ella decise di cambiare strada, abbandonando studi, affetti e patria e trasferendosi a New York, armata del solo sogno di diventare scrittrice. Tutto era iniziato da quella macchina da scrivere regalo del padre, attraverso cui, negli anni dell’infanzia, lei e Truman amavano crogiolare a fuoco lento e infilzare allo spiedo la plebaglia di Monroeville. Ma neppure a Manhattan, città brulicante di vita, rinchiusa in un appartamento senza acqua calda e con uno stipendio da fame, Harper Lee riuscì a sfondare nell’editoria; tutto questo fino a quando un compositore e una ballerina, nel Natale del 1956, le regalarono un assegno accompagnato da un bigliettino molto eloquente: «Un anno senza lavoro per scrivere tutto quello che vuoi. Buon Natale».
Da quel dono del destino e dall’affetto degli amici più cari nacque `Il buio oltre la siepe` -`To kill a Mockingbird`-, ma non fu cosa da poco. Infatti, nelle interviste successive alla pubblicazione del libro, Harper Lee parlò di come questa impresa fosse stata per lei una specie di tortura, frutto di un periodo “disperato” in cui arrivò a riscrivere il romanzo per ben tre volte. Ma quel lontano anno di lavoro, per quanto estenuante, fu ben ripagato: la sua opera, infatti, vinse il Premio Pulitzer nel 1960.

Facile da leggere, ma non da digerire, `Il buio oltre la siepe` aiuta il lettore a rivivere passo a passo la vita di Harper Lee, ripercorrendo le strade di Monroeville e portando alla luce ciò che di peggio la vita può offrire. Come i luoghi della sua città natale, in cui la Lee mosse i primi passi, così anche la fittizia Maycomb da lei descritta è una cittadina dall’apparenza comatosa, ma fremente e ribollente sotto la patina di odioso perbenismo. Popolata da cristiani devoti, patrioti difensori dell’Alabama e “gente dabbene”, Maycomb è un il tipico paesino degli anni ’30, dove i bianchi tollerano e perfino incoraggiano la segregazione razziale; bianchi e neri arrivano così a mescolarsi perfettamente in un’intricata rete di rapporti servo-padrone, in una realtà di quartierini idilliaci e ghetti costruiti vicino a discariche, fra campi di cotone e chiese protestanti. A Maycomb le donne di colore crescono e accudiscono i bambini bianchi con amore e pazienza, mentre le donne bianche si riuniscono in circoli di pettegolezzo, aggiornandosi reciprocamente sulle mediocrità quotidiane; a Maycomb i “negri” lavorano e sostengono l’economia agricola dei loro padroni, ma, al contempo, sono considerati unicamente un’immonda nota a piè pagina nella recente storia di una cittadina patriottica.

E’ in questo ambiente che si muove l’eroina Scout Finch, nata e cresciuta in un vivaio di pregiudizi che portano lei e il fratello Jem a vivere nel costante terrore del “buio oltre la siepe“, ossia del diverso, dell’ignoto, del “malsano”, nel libro incarnato nella figura dello spiritello maligno Boo Radley, il mito del quartiere, il fantasma che ogni notte spia le “donne dabbene” dalle finestre e si nutre di gatti e scoiattoli vivi.
Ma Scout e Jem, come già accennato, non sono bambini come tanti e soprattutto sono figli di Atticus Finch, un avvocato di paese, la cui ossessione per la libertà, la tolleranza e la verità finiranno per sconvolgere la calma sonnolenta di Maycomb durante un’estate particolarmente turbolenta.
Nel corso del romanzo la piccola Scout, scaricando spesso i suoi annosi dubbi sulle spalle di Atticus, porterà il lettore a confrontarsi con il terrificante mondo degli adulti, grondante sangue, visto però attraverso gli occhi innocenti di una bambina. Lei, Jem e il vicino di casa Dill -modellato a immagine e somiglianza di Capote-, infatti, si troveranno improvvisamente ad assistere a situazioni di cui i bambini non dovrebbero mai essere testimoni, come la denigrazione pubblica della dignità umana e professionale del proprio padre, il suo scontro con una marmaglia di bruti travestiti da giustizieri e un processo fondato su una realtà di incesto, stupro e razzismo.

L’incontro fra i bambini e il mondo degli adulti procede sgomento e affannoso e produce domande difficili, spesso sottoposte alla pazienza di un padre, un uomo già costretto a portare sulle spalle il peso di una causa senza speranza, un processo con inevitabili ripercussioni sull’etica e sulla morale. Atticus, infatti, è stato incaricato di difendere un “negro”, uno schiavo, un “omuncolo” accusato ingiustamente dello stupro di una donna bianca.

Il ritratto di Atticus che fatica a rispondere alle terrificanti domande dei figli, i quali loro malgrado sentono il proprio padre tacciato come “negrofilo” e “traditore“, rappresenta un omaggio compassionevole di Harper al proprio padre, anch’esso alle prese continuamente con le domande più innocenti e feroci dell’infanzia su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, anche nell’occasione della sfortunata difesa di due uomini di colore accusati di omicidio. La sentenza in quel caso si rivelerà una condanna e A.C., distrutto dal fallimento, si rifiuterà per il resto della sua vita di occuparsi di casi criminali.
Eppure è in realtà sbagliato confondere Atticus con A.C.: alla figura di un uomo perseguitato dai propri demoni si contrappone infatti il proprio alter ego letterario, una bussola vivente, instillante principi morali e fonte di amorevole protezione. Atticus è il genitore che ogni bambino vorrebbe, il ritratto della sicurezza paterna e l’incarnazione dell’amore per i suoi figli.
Sarà proprio grazie ad Atticus, infatti, che Scout vacillerà nei suoi pregiudizi di bambina e osserverà il mondo con mente più aperta e si dimostrerà una vera eroina nella propria capacità di ricredersi. Boo Radley è un assassino, un mostro raccapricciante… ma allora perché lascia piccoli doni ai bambini? Come può Mrs Dubose, vecchia terrificante e irascibile, essere una persona umana, più coraggiosa di chiunque altro nell’affrontare a viso aperto una terribile dipendenza? E come può un “negro“, accusato di stupro e fonte principale della rovina del proprio adorato padre, essere veramente innocente?
«Atticus, vinceremo la causa?»
«No, tesoro.»
«Ma allora, perché…»
«Non è una buona ragione non cercare di vincere per il semplice fatto che si è battuti in partenza»

Grazie ad Atticus e alla sua esperienza, Scout riuscirà a guardare il mondo da un altro punto di vista, iniziando a fidarsi delle azioni altrui e a osservare il diverso con compassione, credendo alle persone e non al mito che le circonda. E così Scout, forte della propria nuova consapevolezza, si dimostrerà coraggiosa e osserverà con più attenzione la gente e le tradizioni da lei sempre date per scontate. Atticus non sarà più l’uomo da cui tenersi alla larga, il padre degenerato, il rivoltante sovversivo, Mrs Dubose non incarnerà più il terrore di ogni bambino e Boo Radley non farà più paura. E la sorpresa che la riprovevole busta di carta di Dolphus Raymond non nasconde altro se non Coca-Cola, sarà uno dei magistrali colpi di scena di Harper Lee che, pagina dopo pagina, si divertirà a buttare all’aria tutti i pregiudizi della propria eroina.

Protetta da un libro dalla letteratura talmente potente da tenersi in piedi con le proprie pagine, Harper Lee, dopo il successo, si ritirerà a vita appartata come altri celebri scrittori -in primis Salinger e McCullers- mandando avanti sul fronte dell’opinione pubblica l’imbattibile Scout al suo posto.
Questa straordinaria figura letteraria, infatti, ci insegna meglio di qualunque maestro come vivere nella passività, accettando le cose per quello che sembrano, possa mantenere un qualcosa di simile alla pace, ma che alla fine giunge a sgretolare e a disintegrare vita e coscienza. Sacrificando la compassione e l’agire eroicamente al giudizio più confortante, infatti, ognuno di noi lascia che le persone più rozze e deformi, i vari Ewell e le varie Stephanie Crawford, abbiano il sopravvento e che un uomo innocente muoia per il colore della sua pelle.
Harper Lee, come Scout, Jem e Atticus, aveva un debole per i margini e i sussurri dei suoi oscuri abitanti, che costituiscono la vera forza del suo unico romanzo, capace di elevarsi sopra il vociare degli ipocriti e dei prepotenti. Il cuore di Harper, nonostante le delusioni della vita, è infatti sempre rimasto legato a doppio filo al suo passato provinciale, accanto a coloro che avevano impresso sulla pelle il marchio di insignificante o abietto, quelli che «più di altri hanno bisogno della nostra bontà, proprio perché sembrano meritarla di meno».
«[…] Questo di Tom Robinson è un caso che tocca direttamente il vivo della coscienza di un uomo. Scout, io non potrei andare in chiesa a pregare Dio se non tentassi di aiutare quell’uomo.»
«Atticus, forse tu ti sbagli…»
«Come sarebbe a dire?»
«Tutta la gente pensa di avere ragione e che tu abbia torto…»
«Hanno il diritto di pensarlo e hanno il diritto di far rispettare la loro opinione», disse Atticus, «ma prima di vivere con gli altri, bisogna che viva con me stesso: la coscienza è l’unica cosa che non debba conformarsi al volere della maggioranza.»
Quanto sei brava Laura, sto leggendo da un po’ i tuoi post:.. che belle analisi dei personaggi e quante interessanti informazioni sugli autori! Ho appena letto tre post su argomenti che conosco e apprezzo, Il Buio oltre la Siepe, Via col Vento, Holmes, scritti con competenza e passione rari! Un blog di quelli che vale la pena leggere in rete, anzi, un blog di quelli che meno male che esistono in rete! E non ho parole per quel che ho letto alla pagina ‘chi sono le anime salve’: anzi le ho, ma devo prendermi un po’ di tempo per commentarla, mi ci sono molto emozionata, molte cose là scritte sono nel mio modo di pensare da.. praticamente sempre!
Hai ragione, purtroppo c’è chi scrive una citazione e sbatte lì un video, et voilà il post è servito.. che noia e che avvilimento! Va bene per molti, ma io non ho mai capito a che serva, se non che si scrivono cose mediocri per farle piacere alla maggioranza, che altrimenti non commenta perché dovrebbe sforzarsi troppo.
Anche a me occorre(va) tanto tempo per scrivere un post sui film, attività che cerco di riprendere da un pezzo e che ora è in stasi purtroppo.
Per film e libri nel blog c’è molta avarizia di commenti, e bisogna farci l’abitudine: la gente pensa che se non li a visti o letti non può contribuire. Invece l’intento di chi ne scrive è tentare di condividere e divulgare. Chissà perché questo intento non viene compreso. :(
Continua a prenderti il tuo tempo, e non preoccuparti di quel che fanno gli altri: credo sia veramente difficile sfornare un post al giorno, o anche più d’uno, come oggi fanno molti blogger, e al contempo mantenere standard qualitativi alti come i tuoi.
Sui ‘like’ e sul resto ti risponderò da me, è che prima cosa mi sono incuriosita, e ho fatto bene: ricambio l’iscrizione, e sono lusingata della tua; io finora sono iscritta a due soli blog pensa, nonostante sia qui da tempo. Ma se nel reader faccio confluire tanti blog che non dicono nulla di davvero interessante come faccio a seguire come si deve quelli che meritano?
Contenta dell’incontro, davvero! :)
Aurora
Le tue parole mi scaldano il cuore, davvero! Ne sono lusingatissima e veramente veramente contenta! Mi hai letteralmente illuminato la giornata (sarà un caso che ti chiami Aurora? (: ). Aprii questo blog, inizialmente, per un’esigenza puramente personale: io vivo nel terrore che i pensieri e le sensazioni che ho nella mia testa mi possano da un momento all’altro sfuggire e essere dimenticate, quindi ho bisogno di mettere tutto per iscritto in modo da farne memoria; è per questo che quando leggo un libro, vedo un film o ascolto una canzone che mi colpisce, sento l’esigenza fisica di scriverne… è anche, in un certo senso, un modo per rendere loro omaggio! Invece che lasciare i miei scritti salvati in un anonimo documento word, mi sono detta che, magari, potevano essere utili a qualcuno e se riuscivano a suscitare in chi li leggeva anche solo un frammento della passione che avevo provato nel scriverli, questo mi avrebbe reso felice. Ed è così che nasce anche ‘Anime Salve’. E’ per questo che anche un singolo apprezzamento da una persona come te, per me, ha un valore inestimabile! (:
Quando vorrai passare, sarai sempre la benvenuta! Di sicuro io ti visiterò spesso! ^-^
PS: Per scrivere il post sulle Anime Salve, mi sono ispirata -oltre a De Andrè, of course!- a questa canzone: http://www.youtube.com/watch?v=3sLAMUAHIBs
Ho letto che ti piace il rock, quindi, magari, potrebbe interessarti ;)