`Melancholia` di Lars Von Trier • Hyperballad

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«La Terra è cattiva.
Nessuno ne sentirà la mancanza

Melancholia, un pianeta maestoso e affascinante e, allo stesso tempo, incombente e pericoloso.
Melancholia, apparsa nel cielo come una seconda Luna dalle tinte color zaffiro, che si nasconde dietro il Sole e che gioca con la Terra come il gatto col topo.
Melancholia. Colei che è destinata a distruggerci.

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E’ questa, per Lars Von Trier, la melancolia. Una forza magnetica e affascinante, che strega e che si teme, che si cerca di esorcizzare invano attraverso l’uso della razionalità. Un’entità sterminatrice, che porta alla perdizione, alla quale non si può sfuggire e, a causa della quale, si può trovare sia terrore che pacificazione.

Come ogni vero artista, Lars Von Trier cerca di esorcizzare i propri demoni attraverso l’arte.  Una molle e romantica inclinazione al mal di vivere, gli regala una possibilità di ispirazione tanto magnifica quanto inquietante, portandolo ad identificare il sentimento “maledetto” per eccellenza con un pianeta, in rotta di collisione con la nostra Terra. La melancolia annienterà l’umanità, ma, allo stesso tempo, sarà anche la via salvifica lanciata verso un futuro nuovo e differente, a dispetto della distruzione totale che si lascerà alle spalle.

Filtrato attraverso la sensibilità di ciascuno spettatore, ‘Melancholia’ può dare contemporaneamente origine a incredibili momenti epifanici oppure al netto rifiuto di chi ritiene di trovarsi di fronte ad un film incomprensibile; sensazioni che coesistono in tutta l’intera filmografia di Von Trier, e che, proprio per questo, porteranno ogni spettatore a sapere già come confrontarsi rispetto a questa nuova e lucente perla del cinema danese. Quali siano le posizioni di ognuno, è impossibile non sottolineare la fascinazione esercitata dalla regia di Lars Von Trier, che analizza un mondo contaminato da impulsi negativi, con un realismo ricercato nei molti movimenti di una camera a mano insinuante e spregiudicata, che penetra nell’intimità degli enigmatici protagonisti, tutti interpretati da attori di primissimo livello.

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Melancholia’ ci regala il meglio nell’ouverture: otto minuti di pura arte e poesia, capaci di raggiungere i massimi livelli del lirismo visivo. Sulle note del celeberrimo prologo wagneriano del ‘Tristano e Isotta, la fotografia si sposa perfettamente con una suggestione visiva che trae immediato spunto dalla pittura. Abbiamo un riferimento esplicito al quadro di Pieter Brueghel, “Il ritorno dei Cacciatori”, che lentamente prende fuoco trasformandosi in cenere. Assistiamo a una magnifica Kirsten Dunst, Justine, che come Ophelia viene trascinata dalle acque del fiume in mezzo alla ninfee, vestita da sposa, stringendo fra le mani il proprio buquet. Il riferimento artistico è al dipinto di John Everett Millais, che sarà visibile anche nella biblioteca della casa di Claire,  quando Justine sostituirà tutti i libri d’arte esposti sugli scaffali, illustrando quella che sarà la visione della propria fine. E, ancora, vediamo Justine incatenata alla vegetazione della foresta, che l’avvinghia nei suoi tentacoli cercando di ostacolarne il cammino, oppure un suo straordinario primo piano, mentre vi sono uccelli che cadono dal cielo già morti, con la stessa leggerezza delle foglie d’autunno.

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Assistiamo alla fuga disperata della sempre brava Charlotte Gainsbourg, Claire, sorella di Justine, che avanza con il figlio fra le braccia, mentre i suoi piedi affondano nell’erba del proprio campo da golf, nella prossimità dell’inesistente diciannovesima buca; nel frattempo, la meridiana al centro del parco proietta una duplice ombra, generata dal Sole e da Melancholia, mentre un cavallo si arrende sdraiandosi al suolo.
Infine, l’immagine più eloquente, in cui Justine, Claire e il figlio Leo avanzano nel parco. Nel cielo, in corrispondenza delle loro teste, brillano tre corpi celesti: Melancholia per Justine, la Luna per Leo e il Sole per Claire.
Un prologo intenso, bellissimo e di una dolcezza struggente.

Per tutto il resto del film, Lars Von Trier ricorre costantemente all’uso della steadycam offrendo al pubblico immagini da una fotografia assai curata, ma mai fisse. La macchina da presa è sempre in movimento, come se l’operatore avesse eliminato il sistema di ammortizzazione, e il risultato sono inquadrature traballanti o, in maniera più appropriata, barcollanti, come la protagonista Justine e come il suo stesso regista.

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Il primo capitolo narrativo di ‘Melancholia’ è dedicato a Justine, persa e radiosa nel bel mezzo delle sue nozze dorate, pagate dal ricco cognato e organizzate dall’amorevole sorella Claire.
Fin da subito, grazie allo sguardo brillante e al sorriso sospeso, Justine ci appare come una donna passionale, carnale, palesemente irrazionale e emotivamente instabile, al di fuori di ogni schema. Al contrario, sua sorella Claire è una moglie e una madre premurosa, dal carattere controllato, amante delle formalità e alla ricerca della propria sicurezza nel controllo e nell’organizzazione del mondo che le ruota attorno.
Il ricevimento per il matrimonio di Justine e del fidanzato Maichael è il teatro in cui queste due opposte personalità si avvicinano, si distanziano, arrivando a incontrarsi per poi scontrarsi. A complicare il tutto, ci sono i veleni familiari, il disprezzo fra i loro genitori – una madre rancorosa e un padre fannullone – e la meschinità di alcuni invitati, fra cui il testimone dello sposo e datore di lavoro di Justine.

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Per costruire le atmosfere e i personaggi della festa, Lars Von Trier si ispira all’opera del commediografo francese Jean Genet, in particolare alla sua pièce “Le Serve”, costituendo un’accozzaglia di personaggi fuori dalle righe, eccessivi nella loro individualità e totalmente anacronistici. Fra questi, spicca il comportamento del direttore di cerimonia, che si copre la faccia al passaggio di Justine in quanto la accusa di aver rovinato il matrimonio, oppure l’insopportabile datore di lavoro, che prima promuove la sposa, per poi sguinzagliarle dietro un inconsistente apprendista alla caccia di un nuovo slogan pubblicitario per la sua agenzia. Ciò che accomuna tutti questi personaggi, madri insensibili e padri smemorati, mariti distratti e parenti rancorosi, è la perdita di un centro di riferimento, dell’aristotelico motore immobile, attorno al quale tutto ruota e acquista un senso.

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Dopo l’opulenza soffocante della prima parte del film, il capitolo dedicato a Claire assume un altro registro narrativo, profondamente intimista.
Il teatro della vicenda è ancora una volta la lussuosa residenza di Claire e del marito John, tuttavia completamente spoglia dello sfarzo del capitolo precedente. I colori appaiono maggiormente desaturati e più tenui, le luci sono rarefatte e gli ambienti rientrano nella dimensione quotidiana. I primi gesti di Claire, come la cura che manifesta nel preparare una camera da letto, ornandola con fiori e posando il cioccolatino di benvenuto sul cuscino, sono lo specchio del carattere della donna, precisa, razionale e saldamente ancorata alla propria realtà.
Claire sa che il pianeta Melancholia si sta avvicinando alla Terra e ha paura, malgrado il marito John, appassionato di astronomia, la rassicuri, dicendole che non vi è alcun pericolo di collisione. Claire, quindi, esorcizza la paura rifugiandosi nelle proprie certezze, prendendosi cura della famiglia, della casa, del giardino e della sorella Justine, ormai in uno stato di depressione tale da essere incapace di badare a sé stessa.

Justine, inizialmente, è totalmente dipendete da Claire anche per compiere i più banali gesti quotidiani; poi, quando la fine si avvicina ineluttabile e Claire vede tutte le sue sicurezze sgretolarsi all’ombra incombente di Melancholia, i ruoli si ribaltano. Adesso è lei che sente il bisogno di appoggiarsi a Justine, ormai divenuta forte perché completamente consapevole del proprio destino.

E’ in questo momento che Justine rivela le proprie capacità divinatorie, che ne fanno una novella Cassandra, la quale, però, tiene le proprie sventurate predizioni per sé. Non a caso, il piccolo nipote Leo la chiama “zietta spezza acciaio” fin dal principio, epiteto che sta ad indicare un carattere forte e incrollabile, che, però, non si era mai manifestato prima agli occhi dello spettatore.

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Justine è perfettamente consapevole che il pianeta Terra sta inesorabilmente andando incontro alla propria fine, che sarà distrutto da Melancholia, ma tiene tutto questo per sé. Si fa carico di una consapevolezza straziante, che devasta l’anima e che rende i suoi comportamenti durante la festa di nozze pregni di significato. A questo punto della storia,  le sue paturnie appaiono completamente giustificate; quando lo sposo, per esempio, le regala la foto dell’appezzamento di terra che le ha comprato e le parla degli alberi di mele e delle altalene con cui i loro figli potranno giocare, Justine si dimostra fredda e distaccata: ormai nessun progetto ha più senso, nessun programma può arrivare a compimento. Davanti a questa consapevolezza, finalmente si può sfogare, insultando il proprio datore di lavoro, orinando sul tanto osannato campo da golf del cognato oppure cercando di consumare immediatamente tutto quello che le dà piacere, perché presto delle passioni, dei desideri e dei sentimenti non resterà che cenere.

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Tutti gli esseri umani hanno la consapevolezze che un giorno moriranno, infatti non è la paura di morire che tormenta Justine. E’ la conoscenza del come e del quando la sua vita avrà una fine, unita alla consapevolezza che l’intera umanità verrà cancellata in un solo attimo. Da un lato vi è la straziante attesa di un evento prossimo e inesorabile, dall’altro la frustrazione della coscienza che della vita terrestre non resterà nessuna traccia, che anche la memoria e il ricordo verranno spazzati via, come se non fossero mai esistiti.
Dopo la definitiva presa di coscienza della propria impotenza, simboleggiata da un cavallo che non ubbidisce e che si rifiuta di attraversare un ponte, ciò che resta a Justine è di abbandonarsi e lasciarsi possedere da Melancholia, offrendosi nuda, senza difese, alla sua luce. E’ l’incontro definitivo fra Eros e Thanatos.

Melancholia’ è un film al femminile, in cui gli uomini non sono altro che comparse: frivoli, vanesi, persi nel proprio ego, insignificanti, utilizzabili, al massimo, come veicolo di piacere, restano inesorabilmente sullo sfondo. La chiave femminile, al contrario, si estende contemporaneamente alla Natura, alla Terra e a Melancholia, alla Vita e alla Morte; quasi saffico, infatti, è il rapporto che si instaura fra Justine e la luce emanata dal pianeta.

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Nello scioccante ‘Antichrist’, Lars Von Trier parlava del “pianto di tutte le cose che sono destinate a morire”; in ‘Melancholia’, il regista riprende il tema dell’estemporaneità della vita, per dimostrarci come, paradossalmente, una donna affetta da depressione come Justine contempli la fine del Tutto con una calma quasi sovrannaturale, al contrario degli “integrati nel mondo”, totalmente annichiliti, in quanto vivono nel terrore di perdere tutto ciò che con fatica hanno costruito. Justine non ha più nulla da perdere, quindi non ha più nulla da temere.
Questa tematica sembra toccare molto da vicino Von Trier, quintessenza del depresso, che sublima il dramma umano in apoteosi, illustrando nitidamente quello a cui, alla fine, tutti noi andremo incontro.

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Ciò che più di ogni altra cosa risulta struggente è la dolcezza del moto planetario di Melancholia, definito come “una danza di morte”. E’ proprio questa elegante delicatezza che rende tutto più atroce e spaventoso. E’ l’indifferenza della Natura nei confronti della vita: un’intersezione fra pianeti e nulla di più.

Melancholia, infatti, non verrà mai presentato come una minaccia e neppure come un nemico. La sua presenza è quasi rassicurante e fonte di innegabile bellezza. E’ l’avvicinarsi ad un appuntamento al quale tutti noi saremo costretti a presenziare. Non è la paura della fine, quella che annichilisce e priva di ogni speranza: è la consapevolezza della caducità dell’esistenza e l’attesa di un momento finale davanti al quale tutto il resto perderà senso, divenendo effimero, per poi svanire per sempre.

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