Edith Piaf • Je ne regrette rien
“Piaf” in argot significa “passerotto”. L’argot non è una vera lingua, ma neppure un dialetto: è un gergo, come lo “slang” di New York o il “cockney” di Londra, una parlata cittadina coniata dalla malavita di Parigi, un modo sicuro e immediato per fare in modo che i poliziotti e la gente comune non orecchiassero qualche discorso criminale.

Dunque, “piaf” in argot significa “passerotto”, ma più genericamente indica la fisicità tipica di un uccellino, delicata, piccola e minuta, oppure una voce in grado di risultare musicale come un cinguettio. Non c’è da stupirsi, quindi, che alla giovane Edith Giovanna Gassion venne affidato il soprannome di “Piaf”; Edith, infatti, era una donna minuta e fragile come un passerotto, ma possedeva anche quella che è stata definita come una delle più belle voci della storia della musica.
Ad esempio, quando nel 1955 Edith canterà al Carnegie Hall di New York, il pubblico americano entusiasta si alzerà in piedi per sette minuti applausi. Ma quello non era il primo trionfo per Edith Piaf. Prima c’erano stati una serie di concerti all’Olympia di Parigi, una sequela infinita di singoli di successo, dischi e duetti con i maggiori artisti francesi del tempo.
Il segreto del successo di Edith Piaf non era solo la sua straordinaria voce, ma soprattutto il modo in cui la usava. Nessuno come lei era mai stato in grado di trasmettere così tanto con un solo vibrato, nessuno come lei era capace di mescolare l’amore, la disperazione, la gioia e la rabbia, tutto in un solo pezzo. Aveva una voce, la piccola e fragile Edith, in grado di trasmettere l’intensità di un sentimento, roca e aggressiva un momento, dolcissima e struggente subito dopo; nella gola Edith Piaf aveva uno strumento musicale, un dono della natura in grado di modulare il canto in mille suoni e sfumature, come fa un uccellino, appunto.

Quando morì, quasi mezzo secolo fa, Edith Piaf non aveva ancora compiuto 48 anni, ma ne dimostrava 70. I capelli radi e incolore, il volto gonfio e scarno, le mani deformate dall’artrite, il passo incerto, la schiena curva: era così che si presentò sul palcoscenico per l’ultima volta, minuscola, gracile, immobile nel suo abitino nero, animandosi solo per mimare un valzer durante l’esecuzione de ‘La foule’, nella parte finale, quando gli amanti della canzone vengono travolti dalla frenesia dell’orchestra e da una folla che li separa e li rende invisibili. Era la vita che l’aveva ridotta così, il dolore le aveva incurvato la schiena e le aveva fatto perdere i capelli: eppure lei era felice.

No, niente di niente. Edith Piaf non rimpiangeva niente. Né il bene che le avevano fatto, né il male che aveva dovuto subire, che alla fine, per lei, erano quasi uguali. Questo era ciò che Edith cantava nella sua canzone più celebre, ‘Non, je ne regrette rien’, il suo testamento spirituale, il brano grazie al quale era risorta come una fenice, di nuovo, nel 1960, dopo un lungo periodo di tenebre e sofferenza.
Nel 1960 la fine per Edith Piaf era vicina, e lei lo sapeva bene, ma nonostante questo non cercò mai di sottrarsi alla vita, non tentò di ammortizzare i colpi o di evitare gli ostacoli, ma continuò a lasciarsi travolgere, cadendo per poi rialzarsi, aggrappata al microfono, ormai rimasto l’unica sua ragione di vita. E il pubblico per questo la venerava, adorava quella piccola donna anarchica, ribelle e libertaria, sempre sopra le righe e sempre piena di contraddizioni.
Geniale e folle, devota e dissoluta, assetata d’amore quanto di musica: Edith Piaf era sempre stata una perdente di successo, le cui doti artistiche erano pari solo alla sua innegabile vocazione per l’infelicità. Era ammirata dagli intellettuali per il suo anticonformismo, per quell’insanabile senso di insoddisfazione e di inquietudine che l’accompagnavano, ed era amata dal popolo, che in lei vedeva la sua portavoce, un’artista che finalmente cantava delle sue speranze e delle sue delusioni.

Edith Piaf, a una ricerca approfondita, si rivela un personaggio molto più complesso dell’eterna ragazzina insolente e ribelle che la fantasia popolare vuole dipingere: Edith Piaf era una donna modernissima, dalla forza sovrumana e dall’indole instancabile, eternamente assetata di conoscenza e di gioia di vivere, portatrice di una volontà irriducibile che, nonostante tutte le difficoltà, l’aveva resa in grado di plasmare il proprio futuro.

Secondo la leggenda, Edith Piaf nacque al numero 72 di Rue de Belleville; niente di strano, se non che Edith venne alla luce davanti a quel numero 72, sul marciapiede, sotto un lampione, con un poliziotto che passava di lì per caso come levatrice. I genitori di Edith erano due artisti di strada, poverissimi, tanto che non potevano neppure permettersi una dimora fissa; il padre, Louis-Alphonse Gassion era un acrobata e un contorsionista, che subito dopo la nascita di sua figlia sarà costretto a partire per le trincee della Prima Guerra Mondiale, mentre la madre, Annetta Giovanna Maillard, era una cantante che occasionalmente si esibiva nei caffè e nelle fiere di paese. Con la partenza del marito, Annetta non era in grado di mantenere da sola la piccola Edith, per cui la affidò alle poco amorevoli cure della nonna materna, Aïcha, a cui nulla importava della bambina, tanto che quando Louis-Alphonse tornerà a riprenderla, la troverà rachitica, denutrita e incredibilmente sporca.

Louis, appena tornato dalla guerra, era ancora povero in canna, per cui decise di andar a cercare fortuna altrove, affidando di nuovo Edith alle cure di qualcun’altro, questa volta a sua madre, la nonna paterna, conosciuta come Maman Tine e tenutaria di un bordello in un piccolo paesino della Normandia. Qui Edith vivrà per quattro anni, coccolata dalle prostitute come se fosse una loro figlia adottiva. La piccola Edith arrivò a casa di Maman Tine a soli tre anni, avendo tuttavia già vissuto un’infanzia piena di sofferenze e di traumi, che culminò in un periodo in cui decise di non voler più guardare il mondo. Non aveva neppure sei anni quanto una grave cheratite le compromise la vista, tanto da renderla completamente cieca. Non era una patologia irreversibile dell’occhio, ma quasi un gesto di disperazione, un tentativo di autodifesa da una vita che, così piccola, l’aveva già sottoposta a durissime prove da superare.
La storia vuole che le prostitute del bordello fecero una colletta per portare Edith in pellegrinaggio al santuario di Santa Teresa di Lisieux, per chiedere la grazia di tornarla a farla vedere. Non si è ancora concordi sulla veridicità di questo aneddoto, ma ciò che è certo è che, qualche tempo dopo, Edith ricominciò miracolosamente a vedere e che da quel momento rimase devota alla Santa per il resto della sua vita.

Quando Edith compì sette anni, il padre pensò che fosse grande abbastanza per diventare una risorsa professionale, per cui andò a recuperarla e la condusse con sé sulla strada: la bambina avrebbe accompagnato le sue esibizioni da contorsionista cantando, dato che aveva già dimostrato di avere una voce potente e sorprendentemente espressiva per la sua giovane età. Per quanto possa sembrare orribile che una bambina così piccola venisse sfruttata come un fenomeno da circo, il periodo passato con il padre insegnò ad Edith la tempistica dell’intrattenitore e le tecniche per catturare l’attenzione e il cuore del pubblico, qualità che giocheranno un ruolo fondamentale nella sua futura carriera da performer.
Nel 1933, un’ancora adolescente Edith si trasferì a Pigalle, un quartiere a luci rosse di Parigi, insieme all’amica Simone Berteaut, detta “Momone”, una quattordicenne ribelle che Edith soprannominò “ma mauvase génie”, ovvero “il mio spirito maligno”. Momone rimase per sempre accanto ad Edith, nei giorni bui del dolore come in quelli felici dell’ascesa al successo, nonostante spesso fu messa da parte appannaggio del bell’amante di turno, per poi essere puntualmente richiamata quando, inevitabilmente, Edith si ritrovava di nuovo sola.

Prostitute, magnaccia, delinquenti e malavitosi divennero una famiglia per le due giovani ragazze, che sopravvivevano girando per strade e locali, tentando di elemosinare qualche soldo grazie all’incredibile voce di Edith, che a 17 anni era già madre di una bambina di nome Marcelle. Il padre era un muratore, soprannominato P’tit Louis, irresponsabile e dispotico: la loro unione durò per brevissimo tempo, tanto che Edith tornò presto a vivere con Momone, insieme alla sua bambina, fino a quando il marito non gliela strappò dalle braccia, dicendole che se voleva la figlia sarebbe dovuta tornare a casa. In una ricostruzione inquietante della sua tragedia d’infanzia, Edith si rifiutò di farlo, anche se si impegnò per pagare le cure della bambina. Non molto tempo dopo, a soli due anni, Marcelle morì di meningite fulminante; Edith, così si racconta, fu costretta a prostituirsi per guadagnare i soldi per la sua sepoltura. Quello fu uno dei momenti più bui della sua vita: Edith e Momone avevano rispettivamente 19 e 17 anni, erano solo due bambine, con ancora una vita davanti da affrontare. Ciò che è certo, è che il ricordo di Marcelle non abbandonò mai Edith Piaf e fu questo, forse, uno dei motivi per cui decise di non avere più figli.

Per un po’ di tempo Edith continuò a fare l’artista di strada, come sua madre e suo padre prima di lei. Se ne andava in giro per Parigi, sempre accompagnata dalla fedele Momone, che passava il capello per le monete dopo l’esibizione. Edith non passava di certo inosservata: era un’adolescente, ma così piccola e gracile da sembrare ancora una bambina, che però cantava così bene, con quella voce tanto potente quanto piena di dolore e di speranza. La Francia era appena uscita dalla guerra, vincendola, ed era piena di spirito patriottico, così Edith scelse di cantare ‘La Marsigliese’, l’inno nazionale, e i passanti le riempivano di soldi il cappello. Edith riuscì ad avere successo anche per le strade ma, evidentemente, quello non era il suo futuro.
Un giorno stava cantando presso gli Champs-Élysées, quando venne avvicinata da un signore molto distinto ed elegante, ma dallo sguardo malinconico, che si fermò ad ascoltarla, per poi allungarle 10 franchi e un biglietto da visita: quell’uomo era Louis Leplée, il proprietario del Gerny’s, un locale poco lontano, e voleva che Edith l’andasse a trovare per un’audizione. Edith ci andrà e da quel momento la sua vita cambierà per sempre.

Fu proprio Louis Leplée a scegliere il semplice abitino nero che sarebbe diventata la sua inconfondibile uniforme per tutto il resto della sua carriera, fu lui a trasformarla in “passerotto” ribattezzandola “Piaf” e scegliendo per lei un repertorio di canzoni “réaliste”, ovvero brani che descrivevano il mondo delle “classi pericolose” da cui la stessa Edith spuntava, un genere musicale che divenne il marchio di fabbrica della giovane cantante.
Dopo averla fatta diventare un “passerotto”, era il momento per Louis Leplée di rendere Edith una stella. Alla sua prima esibizione al Gerny’s, Edith Piaf era nervosissima: sembrava minuscola in quel vestitino nero, con quello scialle preso a prestito buttato addosso e un rossetto troppo rosso per la sua giovane età. Sui cartelli al di fuori del locale c’era scritto che si sarebbe esibita una certa “Môme Piaf”, ovvero la “ragazza uccellino” in argot; i soliti clienti erano annoiati e al suo ingresso la applaudirono distrattamente, fino a quando quel passerotto non iniziò a cantare: a quel punto nessuno osò più distogliere gli occhi dalla sua piccola figura, il pubblico la acclamò e la sommerse d’applausi.

Da quel momento la “Môme” continuerà ad esibirsi, riscuotendo successo prima in tutta Parigi e poi in tutta la Francia; i migliori autori di canzoni di quegli anni, come Maurice Chevalier e Jean Cocteau, vorranno scrivere per lei e quando uscirà il suo primo disco, sarà subito un successo. In breve, grazie a Louis Leplée e al suo straordinario talento, Edith Piaf era già diventata una stella.
Tuttavia, come tutta la sua vita dimostrerà, le cose con Edith Piaf non era mai destinate ad andare come dovrebbero. Infatti, nell’Aprile del 1936, Louis Leplée verrà trovato steso nell’appartamento del suo ufficio, ucciso da un colpo di pistola: è chiaramente un omicidio e i primi sospettati sono i gangster della malavita parigina, con i quali, purtroppo, Edith Piaf aveva un legame. Per lei è il tracollo: viene accusata di essere complice, quello che prima era il suo pubblico adesso la rinnega e la addita come una vile truffatrice, un’assassina, e la sua carriera rischia il fallimento.

E’ a questo punto che Edith decide di affidarsi totalmente nelle mani di quello che sarà, dopo Leplée, il più grande maestro della sua vita: il paroliere Raymond Asso. Asso, che successivamente divenne suo amante, fu una presenza provvidenziale: gli ci vollero tre anni per curare quella piccola creaturina ferita, tre anni di paziente affetto per insegnarle che vi era un altro mondo al di fuori di quello delle prostitute e dei criminali, tre anni per riabilitarla da Pigalle e dalla sua infanzia caotica. Raymond Asso tradusse i ricordi di Edith in canzoni, affinò il suo grossolano accento da strada e le insegnò la disciplina del palcoscenico: la fece diventare una donna, da ragazzina ribelle che era, una diva invece di un fenomeno che la gente ascoltava come un animale raro viene mostrato in una fiera. Raymond Asso fu anche colui che le presentò la compositrice e pianista Marguerite Mannot, la donna che sarebbe diventa una fra le sue più care amiche e collaboratrici fino alla morte.
Quando nel 1939 i venti della Seconda Guerra Mondiale cominciarono a soffiare sull’Europa, Edith Piaf era di nuovo rientrata in possesso della propria immagine e della propria carriera. Fu lei che divenne la mamma della Francia quando i francesi iniziarono a sentirsi orfani di una patria. Nessuno dimenticò mai quella straordinaria donna che sotto le bombe sfamò teneramente di canzoni il suo popolo.

La sua casa, da dimora di una semplice semianalfabeta, divenne un salotto di incontro per gli intellettuali parigini. Edith Piaf era in grado di fiutare il talento come un segugio, si lasciava sedurre dalla genialità, affascinava e amava tutti senza distinzione, distribuiva affetto come denaro, per poi ritrovarsi a fine giornata sola con la governante e la bottiglia di assenzio. A frequentare i suoi appartamenti c’erano dozzine di cantanti, poeti e scrittori allora sconosciuti, che la stessa Piaf contribuì a lanciare sulla scena culturale; c’erano uomini intelligenti e sensibili come Léo Ferré, o talmente da belli e affascinanti da perdere la testa, come Yves Montand; c’era posto per l’attore spavaldo Eddie Constantine, come per il giovanissimo e timido cantautore Moustaki; e poi c’era quell’armeno dalla faccia segnata, quel dongiovanni di Charles Aznavour, che nel 1946 seguì Piaf in tournée in Francia e negli Stati Uniti.
Come più grande star femminile della Francia, d’altronde, ad Edith Piaf gli uomini non mancarono mai. Molti furono i suoi mariti e ancora più innumerevoli i suoi amanti, tanti da non crederci, tutti uomini intelligenti, belli e carismatici. Tuttavia, il vero amore di Edith Piaf fu solo uno: Marcel Cerdan, che lei incontrò per la prima volta a New York nel 1947.

Marcel e Edith erano una coppia fuori dagli schemi, decisamente strana: lei era il “passerotto”, minuta, sottile, fragile, mentre lui era un pugile, il “Morrocan Bomber”, il campione del mondo dei pesi medi. Di origine nordafricana, alto, possente, naso rotto da un pugno: Marcel Cerdan non aveva nulla a che vedere con il mondo della musica e dell’arte, eppure fra lui e Edith nacque una storia d’amore da favola, la prima che, finalmente, sembrava che potesse durare. In un primo momento, a causa dell’eccessivo interesse dei giornalisti, i due si presentavano come compatrioti accomunati dal desiderio di conquistare l’America, ma dopo il ritorno a Parigi il loro piccolo segreto venne svelato e accettato dal pubblico; erano la coppia del momento, due metà che tornavano a ricongiungersi, due persone di origini modestissime che rappresentavano la Francia nel mondo, l’eroe e l’eroina della fantasia popolare. Tuttavia, come ho già scritto, nel caso di Edith Piaf, le cose non erano mai destinate a finire bene.
Edith è negli Stati Uniti per la sua tournée, mentre Marcel è in Francia per disputare i suoi incontri; sono costretti a causa delle loro carriere a restare separati, ma appena Marcel è libero non esita a raggiungere la sua Edith oltreoceano. Così, il 27 ottobre 1949, come spesso accade, Marcel Cerdan prende un aereo da Parigi per New York, che finirà per precipitare appena sopra le Azzorre: Marcel morirà insieme a tutti gli altri 49 passeggeri. Quella sera, appena saputa la morte del suo amato, Edith è distrutta ma vuole cantare lo stesso; lo fa male, ovviamente, ma lo sta facendo solo “per il suo Marcel” e quindi non importa.

Marguerite Mannot mischierà l’amore, la gioia e il dolore della relazione fra Edith e Marcel in una musica, sulla quale la stessa Piaf scriverà il testo componendo la struggente ‘Hymne a’ l’amour’, ovvero l’inno per eccellenza all’amore vero.
Amore e musica, infatti, saranno due costanti inseparabili nella vita di Edith Piaf; come lei stessa spiegherà, infatti ,l’amore non avrebbe significato nulla per lei se non l’avesse potuto cantare, così come la musica era priva di senso a meno che non fosse ispirata da quel sentimento. Questo anelito al cuore e alla passione permeava la sua voce e fu proprio l’elemento che la rese immortale.

Edith Piaf divenne famosa come una cantante che viveva all’interno delle sue stesse canzoni, nonostante tutto intorno a lei si facesse man mano sempre più estenuante. Parole e musica erano contemporaneamente le sue schiave e le sue amanti: le amava tanto quanto la terra ama la pioggia, dormiva con loro, le riscaldava, le possedeva. Durante gli anni trionfali della sua apoteosi, Edith Piaf, con il solo suono della sua voce, era in grado di strappare il cuore dal petto dei suoi ascoltatori, che fino alla morte ricordarono la gioia di sentirla cantare a Parigi come a New York, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando sembrava incarnare l’immagine della Francia rinascente. Ascoltando Edith Piaf dal vivo si era in grado di provare una sensazione di gioia purissima, seppure la canzone che veniva rappresentata parlasse di amori finiti in tragedia, di nostalgia e di personaggi esclusi ai margini della vita. Con i suoi brani Edith Piaf rese indelebile il mito del canto popolare, riempiendolo con i suoi ricordi e con i racconti di una vita vissuta al limite, enfatizzando tutto con il vibrato della sua voce, i frenetici gesti delle sue mani e le struggenti espressioni del suo viso.

Il pubblico sapeva che il dramma che Edith Piaf rappresentava sul palco non era semplice recitazione. Edith Piaf in ogni sua canzone raccontava della sua infanzia tragica, all’insegna della povertà e dell’abbandono, della tossicodipendenza e dell’overdose fatale della madre, della morte del suo unico grande amore, delle lesioni, delle malattie, degli incidenti, dei piccoli e dei grandi drammi di una vita. Tuttavia, quando Edith Piaf si ritrovava sul palco a cantare il suo massimo capolavoro, ‘Non, je ne regrette rien’, sfidava chiunque a provare pietà per lei, che, nonostante tutto, aveva avuto il coraggio di abbracciare la vita con passione, anche nel suo lato più crudele, tanto che anche la sofferenza per lei valeva la pena di essere vissuta, finché poteva essere rappresentata nelle sue canzoni. “Mai niente e nessuno mi impedirà d’amare, me lo sono conquistata questo diritto, l’ho pagato questo diritto!”.
La volontà di Edith Piaf di andare avanti era erculea, quasi sovrumana, ma altrettanto non si poteva dire del suo piccolo fragile corpo.
Dopo la morte di Marcel Cerdan, Edith iniziò a soffrire di artrite invalidante, aggravata dal dolore cronico di alcune lesioni rimediate dopo svariati incidenti stradali, di cui uno particolarmente grave. I medici le prescrissero quindi la morfina, da cui poi divenne dipendente. Inoltre, Edith Piaf beveva fin dalla giovinezza; non è vero, come si dice, che Aïcha, la nonna materna, le mettesse il vino rosso nel biberon, ma Edith cominciò comunque a bere presto, tanto da diventare un’alcolizzata. L’alcol e la morfina divennero quindi delle droghe, in grado di inibire temporaneamente i dolori del corpo come quelli dell’anima.

Dal 1951 al 1963 Edith Piaf ebbe quattro incidenti d’auto, un tentativo di suicidio, quattro cure disintossicanti, una cura del sonno, tre coma epatici, due crisi di delirium tremens, sette operazioni, due broncopolmoniti e un edema polmonare. Tuttavia, le restava l’energia per un altro uomo, Théo Sarapo, un bellone fascinoso di vent’anni più giovane di lei, che sposò in cambio di adorazione e devozione. Nel declino della fine, l’unico momento di rinascita fu rappresentato dalla scoperta del pezzo ‘Non, je ne regrette rien’, che da moribonda la fece rimanere sveglia tutta la notte a provarlo e riprovarlo con il suo entourage. Ispirata dalla sua miscela di accettazione fatale e di un’imperitura volontà di sopravvivenza, Edith Piaf si esibirà con la canzone nella televisione nazionale francese e nel suo ultimo tour. Nonostante in questo ultimo periodo apparisse sul palco apparentemente vecchissima, segnata e dolorante, chi l’ascoltava diceva che la voce era ancora bella, potente e vellutata, quella della “Môme” di una volta.
Edith Piaf morì di insufficienza epatica il 10 ottobre 1963, a soli 48 anni, bruciata dalle fiamme stesse della sua gloria. Il funerale rappresentò un vero e proprio avvenimento popolare, l’ultimo grandioso evento della sua vita terrena: 100.000 persone vi presenziarono e, per la prima volta dopo la guerra, il traffico di Parigi venne completamente bloccato. Avvertito della sua morte, il carissimo amico Jean Cocteau, sofferente di cuore, non fece in tempo a parteciparvi, perché morì d’infarto poche ore dopo, facendo solo in tempo a comporre un’elegia in suo onore. D’altronde, lui stesso aveva scritto: «Se non c’è più Madame Piaf che canta, resta solo la pioggia che cade, il vento che fischia e la luna che si oscura».
Reblogged this on Il blog di Ponterosso and commented:
Una stupenda, concisa e appassionata biografia di una delle più grandi interpreti della canzone francese, Edit Piaf . Complimenti all’autrice per ricordarci di che cosa era fatto il fascino della voce di Edith.
Nice blog poost