Annie Leibovitz • A Life Through a Lens
I grandi fotografi non possono fare a meno di scattare: è un istinto vitale. Ovunque si voltino, nei loro occhi si imprime il negativo di un’immagine, il fantasma di una fotografia che non c’è ma che potrebbe esserci; qualunque particolare è degno di essere immortalato e anche il soggetto più banale può celare la possibilità di creare un piccolo grande capolavoro.

La fotografia, d’altronde, è una delle poche arti in grado di penetrare attraverso la superficie delle cose, di immortalare ciò che risiede oltre l’involucro, il tutto quasi in maniera involontaria; la fotografia è in grado di fissare gli atteggiamenti più segreti, di fermare in un attimo eterno i moti più fuggitivi, di registrare attraverso un lampo di luce i più disparati momenti, la cui somma è in grado di comporre il minuto, l’ora, la giornata, la stagione, l’anno e perfino l’intera vita di un individuo. Eppure, per realizzare tutto ciò, non basta semplicemente inquadrare, mettere a fuoco e premere un pulsante. Per dar vita a questo piccolo incantesimo, non è sufficiente essere persone comuni, ma occorre avere una caratteristica in più: occorre essere un po’ magici.

Per fortuna, la storia della fotografia è piena di queste creature speciali, di queste personalità all’apparenza uguali a tante altre, eppure in grado di catturare l’essenza del mondo con un semplice click e un lampo di luce. Ed ecco, quindi, che emergono le figure di grandi fotografi, in grado, grazie al loro talento e alla loro arte, di documentare un’epoca, una realtà, un ambiente, e di donarli all’umanità intera che, altrimenti, non sarebbe mai stata in grado di viverli. Tanti sono coloro che meritano di essere citati, tanti quelli a cui servirebbe dare memoria, ma da qualche parte occorre pur cominciare; e, quindi, perché non iniziare da una donna – una grandissima donna – in grado di fotografare un paese e di documentare l’avvicendarsi delle sue epoche, dalla rivoluzione hippie ai fasti chiassosi degli anni ’80, fino al nostro bizzarro e tragico mondo moderno; raccontiamo, quindi, la storia di Annie Leibovitz.
♦ UNA VITA DIETRO L’OBIETTIVO ♦
Annie Leibovitz: 63 anni sulle spalle e 40 anni di carriera, in perenne equilibrio fra mass marketing e invenzione; fotografa di fama mondiale, irrefrenabile, provocatrice e geniale, una personalità creativa in grado di destreggiarsi fra reportage e servizi glamour per riviste ad altissima tiratura, con una spiccata predilezione per i ritratti, siano essi di persone celeberrime o ignote.

Annie Leibovitz è una professionista forte e intelligente, dallo sguardo austero tipico delle donne ebree di successo, come Susan Sontag, una delle persone più importanti della sua vita, o Gloria Steinem o Barbra Streisand. La Leibovitz è alta e allampanata, più divertente e più bella di quanto le fotografie non suggeriscano. Perennemente senza trucco, con indosso camicie e pantaloni da uomo, in grado di fornirle comfort e un’aria di sobria autorità, è abbastanza raro trovare in giro suoi autoritratti; infatti, Annie Leibovitz sembra una donna completamente sprovvista di vanità, forse in quanto abituata ad immortalare la bellezza altrui, soprattutto di donne che, sempre più spesso, tendono a coprire gli sgraziati segni dell’invecchiamento sotto strati e strati di cerone e silicone.
Annie Leibovitz apparentemente non sembra aver bisogno di questo: è a tutti gli effetti la fotografa più pagata degli Stati Uniti, in grado di guadagnare almeno 1 milione di sterline all’anno; è talmente famosa che il suo stile è ormai diventato universalmente riconoscibile, tanto da non sentire neppure l’esigenza di apporre una firma sotto i suoi ritratti. Nonostante nel presente sia sostanzialmente impegnata a realizzare servizi su commissione per grandi riviste di moda, nelle sue immagini continua ad albergare una forte volontà narrativa, che si concretizza nell’idea di indagare una fisionomia in un contesto originale e imprevisto, in grado di farne emergere gli aspetti meno ovvii e scontati.

Annie Leibovitz ha fama di essere una donna piuttosto difficile e pignola, una professionista alla perenne ricerca della perfezione e, per questo, a volte anche impaziente e arrogante. Il suo incontentabile perfezionismo rende lunghe e sfiancanti le giornate di coloro che le stanno intorno, che hanno il compito di rendere impeccabili costumi, luci e oggetti di scena, mentre i suoi soggetti devono essere in grado di mostrare tutto il fascino e la persuasione di cui sono capaci, dato che ogni scatto rappresenta un atto creativo unico e pertanto irripetibile.

D’altronde, quando si ha fra le mani una carriera come quella della Leibovitz, questa non può fare a meno che dominare tutto il resto della vita. Il lavoro di un fotografo del suo calibro non ha fasce orarie, non inizia alle 9 del mattino per terminare alle 6 di sera, ma assorbe tutto il tempo di un’esistenza, meravigliosa ma estremamente impegnativa. Annie ormai da tempo ha rinunciato a separare ciò che è personale dal suo lavoro: non convive con nessuno, sebbene coltivi grandi amicizie da tempi immemori, e il suo appartamento non è altro che una gigantesca collezione di portfoli e libri di fotografia.
Annie Leibovitz, con il tempo, ha fatto dell’intera vita il suo soggetto. Che si tratti del lavoro, della sua famiglia o di una terra straniera, è perennemente interessata a osservare e registrare l’esistenza in tutti i suoi aspetti. In effetti, la vita per un grande fotografo è solo una vita vissuta dietro l’obiettivo.
♦ LE ORIGINI: What you can see, you can Photograph! ♦

Annie Leibovitz è la terza figlia di una famiglia di ebrei americani. La madre, Marilyn, crebbe a New York, in un nucleo familiare appartenente alla middle class istruita, mentre il padre Sam era un ragazzo un po’ grezzo ma dal grande potenziale, proveniente da una generazione di ebrei emigrati dalla Romania. I genitori di Annie si sposarono nonostante l’avversione delle rispettive famiglie, vivendo insieme fino all’avvento della Seconda Guerra Mondiale, per la quale il padre si vide costretto ad unirsi alla forza aerea degli Stati Uniti, dopo una breve parentesi nel mondo degli affari; una carriera piuttosto inusuale per un giovane uomo ebreo con sei figli sulle spalle!

Annie Leibovitz impara la visione del fotografo nel corso dei primi anni di una vita vissuta viaggiando perennemente, a bordo di una station wagon stracarica di oggetti e persone. I genitori si spostano con grande frequenza da un posto all’altro dell’America, in preda ad una sorta di frenesia motoria, eternamente connessi alle proprie radici ebraiche che permettono loro di vivere la realtà del viaggio come la possibilità di raggiungere una sorta di Terra Promessa, ovvero un luogo in cui finalmente fermarsi e trovare un po’ di quiete.

Quando un bambino cresce viaggiando, è comprovato come sia molto facile che sviluppi un animo artistico; Annie scopre il mondo da una cornice preconfezionata, il finestrino dell’auto, in un processo d’educazione meraviglioso, costruito su una vita on the road alla ricerca di farfalle e di avventure squisitamente statunitensi. Gli anni ’60, d’altra parte, erano quelli di una generazione che vagabondava per semplice diletto, rifiutando qualsiasi tipo di appartenenza, cambiando luoghi di vita nella perenne ricerca di se stessa, in un’epoca in cui il trip – in tutte le sue accezioni – era un elemento decisamente di rigore.
Attraverso i finestrini della station wagon della famiglia, Annie apprende il taglio dell’inquadratura e la visione del mondo esterno attraverso una serie di scatti. La sorella ricorda come il suo primo fotogramma fosse proprio il parabrezza dell’auto, con una visione della strada antistante; è proprio da lì, infatti, che proviene il suo destino di fotografa di successo.

Sullo sfondo di queste prime esperienze c’è sempre la figura della madre Marilyn, che assume su di sé il compito di creare un archivio di immagini di famiglia, dallo scopo affettivo ma anche puramente logistico, in quanto unico strumento in grado di tracciare un percorso facile da seguire nella labirintica esistenza della sua famiglia.
Attraverso le fotografie e i filmati, Marilyn Leibovitz tiene memoria delle tappe di crescita dei suoi bambini; basta sfogliare un album per ricordarsi il momento in cui le bambine hanno avuto la scarlattina oppure quello in cui il maschio più grande ha rimediato il primo brutto voto a scuola; ci sono le foto dei primi passi e dei primi litigi, dell’acne e delle crisi sentimentali dell’adolescenza, dei giochi e dei primi lavori, insomma dell’inesorabile e sempre troppo veloce percorso che porta i propri figli a trasformarsi, da bambini devoti, in giovani uomini e giovani donne che prima o poi diranno addio ai propri genitori.

“What you can see, you can Photograph”: questo era uno degli slogan più in voga negli Stati Uniti della Annie bambina, un’epoca in cui la rappresentazione familiare attraverso i nuovi mezzi tecnologici arriva a far parte in maniera intrinseca della cultura popolare americana del dopo guerra. Tutti sentono l’esigenza di fotografare, di lasciare memorie di qualsiasi tipo, di celebrare l’esistenza familiare alla base della società statunitense. Infinite sono le ore di girato negli archivi, che immortalano pomeriggi di picnic e torte di mele, automobili nuove, bambini piangenti e genitori commossi ai matrimoni; ogni momento, per quanto marginale e privato, diventa centrale nella costruzione di una memoria nazionale, creando l’istantanea di un paese in via di sviluppo e in viaggio verso la modernità.
Di lì a poco la diffusione della Polaroid che, finalmente, non comportava alcuna difficoltà tecnica per gli utenti, rende la realtà dei fotoamatori una costante radicata negli Stati Uniti; sempre armati di macchina fotografica e sempre pronti a scattare, i fotoamatori iniziarono a raccogliersi in club, spesso suddivisi per interessi e tematiche, dando così vita a una comunità vivace e in continua e frenetica riproduzione. Anche i bambini, in breve, ebbero le loro macchine giocattolo, come quella prodotta dalla Fischer Price, che invase clamorosamente il mercato degli anni ’60. Non c’è da stupirsi, quindi, che da una statistica del 1967 emerga come in America, in un solo anno, gli amatori scattarono più di tre miliardi di foto, il doppio di quanto avvenne in Europa nello stesso periodo.

Quello del fotografo ben presto divenne un mestiere di notevole prestigio e di grande attrattiva, soprattutto per i giovani, che invidiavano i successi e la celebrità dei professionisti già famosi. Nessun lavoro, a parte quello della rockstar, era più desiderabile dai ragazzini: quella del fotografo era una professione ambiziosa, interessante e creativa, senza contare che permetteva di girare il mondo e di incontrare le personalità più disparate.
Come per molti altri giovani jewish americans, anche Annie Leibovitz era alla ricerca di una possibile dimensione in cui vivere. Magrissima, alta, è riconoscibile in tutte le foto di famiglia per i giganteschi occhialoni che all’epoca erano inflitti senza pietà a tutte le signorine con problemi di miopia. La sua uniforme, fin dalla giovinezza, non prevedeva vestitini femminili e capelli raccolti in elaborati chignon, ma, al contrario, pantaloni da uomo e camice sformate, lunghi capelli biondi sciolti al vento e occhiali dalla montatura appariscente. Tale è la Annie di oggi, con tutte le griffe del caso, che rimane tuttavia fedele alla sua immagine di base.

L’arte era per la giovane Annie l’interesse principale già all’epoca della High School, tanto da decidere di studiare pittura al San Francisco Arts Institute. Iniziando il percorso nell’idea di diventare un’insegnante, Annie Leibovitz rapidamente comprenderà come quello che davvero desiderava era di esprimere se stessa in chiave d’artista. Interessata già fortemente alla politica – che resterà sempre un territorio di riferimento -, in un momento in cui la partecipazione ai fatti e ai misfatti della vita pubblica era diffusa e collettiva, la fotografia le appare come lo strumento ideale per testimoniare e raccontare gli avvenimenti della sua epoca.
Quasi mitologico, infatti, era stato l’impatto del celeberrimo filmato amatoriale che immortala l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy a Dallas, realizzato da un semplice sarto su insistenza della moglie, che voleva immortalare il momento storico per poi mostrarlo a figli e nipoti. Quelle immagini, in breve, da semplice ripresa privata, fecero il giro del mondo, fino ad essere comprate e pubblicate da una prestigiosa rivista come Life.
Insomma, alla fine degli anni ’60 la fotografia era nel cuore di tutti e la sua importanza stava crescendo a dismisura. Annie, quindi, si organizza rapidamente per partecipare a corsi di gruppo sulla materia, fino ad impadronirsi dei rudimenti del mestiere. Le prime immagini scattate alle manifestazioni pacifiste segnano un passaggio di testimone nella sua famiglia, da madre a figlia, ed avranno un ruolo fondamentale nel documentare il soggiorno dei Leibovitz nelle Filippine.

Infatti, nel frattempo, è scoppiata la guerra in Vietnam, alla quale il signor Leibovitz è suo malgrado costretto a partecipare. Annie e i suoi fratelli, come la gran parte dei giovani dell’epoca, prendono già da tempo parte alle manifestazioni contro il conflitto, ma a differenza degli altri coetanei sono costretti a vivere il paradosso di vedere il proprio padre direttamente coinvolto, tanto da doversi trasferire presso quella sconosciuta terra straniera. Annie recalcitra a lungo: a nessun costo vuole lasciare l’America per quel lontano e sperduto paese del Pacifico; alla fine, però, è costretta a cedere, per cui fa di tutto per cogliere l’occasione. Acquista una macchina e inizia a scattare centinaia di fotografie all’interno della base militare in cui alloggia, raccogliendo l’eredità della madre di documentare la vita della propria famiglia.

Lasciate le Filippine, dopo una breve parentesi israeliana, Annie ritorna finalmente in America e riprende il proprio apprendistato. Giovane e dinamica, l’aspirante fotografa è nell’età ideale per immagazzinare e assorbire nuove informazioni e pertanto decide di concentrarsi nello studio del reportage sociale, l’ambito perfetto in cui esprimere il suo talento nel coniugare una personale della realtà con quella del soggetto rappresentato. A scuola i professori le indicano come maestro principale il “poeta” della fotografia Henri Cartier-Bresson, che resterà la sua stella polare per tutto l’operato a venire; altre fonti d’ispirazione divengono Robert Frank, impareggiabile cronista della vita statunitense, e Richard Avedon, di cui la colpiscono i ritratti così perfetti e la capacità di narrazione.
Nel frattempo, nell’America a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, agivano due personalità in grado di svolgere ricerche estremamente radicali e rivoluzionarie nel mondo della fotografia. Da un lato imperava la nuova visione di Andy Warhol, che pose lo scatto al centro della ricerca estetica, come mezzo per trasmettere una personale visione del disastro contemporaneo; dall’altra parte, nell’ombra, lontano dalla luce dei riflettori, agiva in silenzio la geniale e terribile Diane Arbus, che divenne maestra nel rappresentare le realtà più nascoste, narrate attraverso i ritratti di personaggi al margine della vita, tanto da guadagnarsi il poco lusinghiero appellativo di “regina dei freaks”.
Insomma, tutto questo accade e si sviluppa in una rete fittissima di eventi e contribuisce sostanzialmente nella formazione di ciò che Annie Leibovitz, nel futuro, percepirà come realtà fotografica. Ormai Annie è decisa: il suo destino è quello di diventare una fotografa professionista e tutto è pronto per il suo momento.
♦ L’EPOCA DI ROLLING STONE ♦
La città dell’avvento doveva essere per forza San Francisco. Lungo la baia californiana, infatti, era già accaduto di tutto: gli hippie, i poeti, i tossici, l’underground che sentiva il bisogno di diventare mainstream, perché ormai il rock era diventato un affare a moltissimi zeri e tutti volevano sfruttarlo. In questo ambiente, nel 1967, Jan Wanner, newyorkese in trasferta, ha una visione e decide di realizzare un magazine con l’ambizione di cambiare il mondo, avente come pubblico proprio quel popolo di hippie, di sognatori e di ribelli che avevano fatto nascere una nuova rivoluzione. E’ così che, da un formicolante e frenetico calderone di idee e musica, nasce la rivista Rolling Stone.

Per lo staff di Rolling Stone il rock era la chiave, la guerra in Vietnam un chiodo fisso e la linea editoriale una decisa e innegoziabile posizione anti-establishment. Monterey e Woodstock erano memorie recenti, per cui la musica – il rock, in particolare – era il codice d’accesso per quella generazione. Le rockstar erano i nuovi eroi, gli idoli di un popolo di giovani che sentiva l’esigenza di perdersi nell’estasi dell’identificazione nei confronti di queste creature quasi mitologiche che, dopo aver infiammato i palcoscenici di tutto il mondo, improvvisamente sparivano per una strana forma di violenta estinzione. A un divo del rock tutto era concesso: eccentricità, seduzione, uno stile di vita oltraggioso, ma incredibilmente attraente; fu così che, in pochissimo tempo, venne plasmato un nuovo ordine delle cose.

Nel 1970, Annie Leibovitz, fresca d’Israele e pronta a definire una nuova estetica del ritratto, decide di usare come soggetti dei suoi scatti proprio quelle nuove “divinità” venerate dalla sua generazione. La sua testata di riferimento, a questo punto, non poteva che essere Rolling Stone, una rivista giovane, creativa e aggressiva come la sua incontenibile personalità impegnata nell’instancabile ricerca di una realizzazione.
Copertina dopo copertina, Annie Leibovitz riesce ad ottenere sempre maggior spazio, fino a quando, nel 1973, diventa la fotografa principale di Rolling Stone, status che manterrà per ben 10 anni, passando di successo in successo. Attraverso i suoi servizi fotografici, Annie collega la sua fotografia a una nuova visione pop, in cui gli elementi principali diventano personaggi riletti attraverso visioni estremamente chiare, riconoscibili e, soprattutto, in grado di essere comprese immediatamente da tutti.
E’ così che nascono ritratti come quello di Joe Dallesandro, all’epoca musa di Andy Warhol, o di Linda Ronstadt, con la spallina calata e lo sguardo fisso o, ancora, quello di una sensualissima Patti Smith, che si staglia potentissima e carismatica davanti a un muro di fiamme sprigionate da bidoni di benzina.

Il primo appuntamento importante con il mondo del pop, tuttavia, per Annie Leibovitz avverrà nel febbraio 1971, quando incontrerà John Lennon e Yoko Ono, che molto di rado decidevano di accettare interviste o di lasciarsi fotografare. Questa straordinaria occasione costituirà per Annie la premessa di un rapporto di lunga durata con i due artisti, che culminerà con quello che sarà destinato a diventare uno dei servizi fotografici più famosi della storia del rock.
Poco prima dell’agguato mortale che gli venne teso di fronte al Dakota Building, infatti, John Lennon aveva trascorso un giorno intero con Annie Leibovitz insieme a Yoko Ono, in una sessione di scatti in cui fu realizzata una delle più stupefacenti fotografie che lo vedono protagonista. Il cantante, completamente nudo, abbraccia sul letto la sua amata, vestita di una semplice maglia nera e di un paio di jeans, dandole un disperato bacio d’addio; John Lennon, in quel caso, non ebbe paura a dimostrare tutta la propria vulnerabilità e tutto il proprio amore verso la sua donna, mostrandosi fragile e inerme davanti all’obiettivo. La sua morte, ovviamente, diede un’incredibile popolarità all’immagine, che commosse l’America venendo pubblicata in copertina a Rolling Stone, senza alcuna scritta che potesse esprimere doverosamente il dolore di quella perdita.

Ormai era chiaro come le foto di Annie Leibovitz stessero diventando veri e propri pezzi da collezione, in grado di documentare in maniera diretta ed efficacissima i momenti salienti della storia del proprio paese. Dopo la musica, non di meno fu l’impatto con il mondo della politica; in particolare, Annie scatterà immagini a non finire del congedo di Nixon dalla Casa Bianca dopo lo scandalo Watergate. La Leibovitz sarà una delle ultime fotografe a lasciare il cortile del palazzo presidenziale e proprio in quei momenti terminali realizzerà la fotografia di alcuni membri dello staff intenti ad arrotolare il tappeto rosso, mentre l’elicottero con a bordo Nixon e la moglie prenderà il volo: l’immagine perfetta per indicare il tragico e grottesco epilogo del potere di un tiranno.
Un caso a parte nella carriera di Annie Leibovitz di questi anni, invece, sarà rappresentato dal rapporto con i Rolling Stones, con cui avrà una relazione esclusiva, partendo addirittura con loro nelle tornée del 1972 e del 1975, nel primo caso incaricata dalla sua rivista e nel secondo come fotografa ufficiale della band.

Per la prima volta una rockband trasgressiva e di fama planetaria aveva una fotografa donna al suo seguito, un fattore da non sottovalutare, in quanto cambierà radicalmente l’usuale raffigurazione della vita sia sopra che sotto al palco. Annie, infatti, all’abituale rappresentazione machista della band, predilige una visione meno ufficiale, che si concentra soprattutto nella documentazione del backstage; per questo motivo, la ragazza con gli occhialoni ha la possibilità di seguire i musicisti ovunque voglia: sbalorditiva è la sua capacità di mimetizzarsi, tanto che molto spesso fa dimenticare della sua presenza, fattore che porta i suoi soggetti a lasciarsi andare e ad abbandonare le pose canoniche. E’ in questo modo che vengono scattate foto incredibili come quella che immortala un Mick Jagger assai stanco in accappatoio dentro l’ascensore o quella di Keith Richards, completamente ubriaco, che si appoggia per sorreggersi allo stipite della porta della sua stanza d’albergo.
Tuttavia, per quanto straordinario, un life-style di questo tipo ha un prezzo, che anche Annie è costretta a pagare; correre sempre dietro a delle rockstar è sfiancante e, per cavarsela, è quasi inevitabile fare uso di qualche “additivo”. Ne consegue che, di ritorno dall’ultimo tour con gli Stones, Annie sarà costretta dalla sua famiglia e dagli amici a seguire una sessione di rehab in una clinica specializzata, con l’obbligo, poi, di cambiare radicalmente esistenza.
♦ VANITY FAIR & VOGUE: glamour, moda e celebrità ♦

Nel 1983, Annie Leibovitz approda a Vanity Fair, spostando il proprio obiettivo dal circo del rock’n’roll ai patinati servizi di una rivista di moda neonata e ancora tutta da inventare. In breve tempo, la giovane fotografa entra a contatto con il mondo del glamour, che la costringe a imparare come costruire un set o capire quale sia il profilo migliore dei suoi soggetti, rendendo la propria fotografia molto più artefatta e seducente, sebbene senza rinunciare a una certa dose di provocazione e al suo impareggiabile tocco ironico.
Il gioco muta rispetto all’esperienza Rolling Stone, eppure l’idea di base è sempre la stessa: offrire il ritratto del personaggio proposto nella maniera meno prevedibile possibile. E’ così che Annie impara a giocare di sorpresa, attraverso un turnover velocissimo, accompagnando i soggetti rappresentati con oggetti, accessori scenografici o animali che, in qualche modo, siano in grado di illustrarne visivamente il pensiero o l’essenza più profonda.
Whoopi Goldberg, ad esempio, racconta di quanto abbia sostanzialmente contribuito alla sua fama il celebre ritratto che la vede immersa in una vasca di latte, mentre Demi Moore ottenne straordinaria celebrità grazie allo scatto del 1991, che la ritrae completamente nuda e incinta negli ultimi mesi di gravidanza, bellissima e scandalosa, tanto da suscitare le ire di vari negozi che si rifiutarono di vendere il numero di Vanity Fair in questione.

Fra le tantissime immagini celebri realizzate dalla Leibovitz in questo periodo colpiscono, fra le altre, anche una magnifica istantanea della regina Elisabetta II, fotografata su uno sfondo di nuvole in tempesta e con una mantella nera indosso, oppure quella di Bette Midler che posa su enorme letto composto da centinaia di rose rosse, a cui la fotografa e il suo staff avevano tolto tutte le spine; ancora, come non ricordare la fotografia di Meryl Streep con la faccia bianca di cerone, intenta a manipolarla per farle cambiare espressione, oppure i toccanti quadretti di famiglia dei Cruise con la loro neonata Suri. In tutte queste immagini il corpo e le sue possibili espressioni rimangono un elemento principale nella fotografia di Annie Leibovitz, che non indietreggia nemmeno di fronte alla possibilità di rappresentare se stessa incinta, nel 2000, citando lo stesso scatto fatto quasi 10 anni prima alla Moore.
Il passo successivo per Annie sarà quello di firmare un contratto con un’altra celebre rivista, Vogue America, dove, secondo la potente e temibile direttrice Anne Wintour, nessuno è ancora oggi in grado di lavorare quanto lei che, sebbene non sappia cosa significhi “budget” e metta continuamente tutto in discussione, è in grado di ottenere risultati inimitabili. Il lavoro per i suoi assistenti è comprensibilmente micidiale, tanto che arrivano a soprannominarla la “Barbra Streisand con la macchina fotografica”.
♦ SUSAN SONTAG E LA FOTOGRAFIA COME ‘MOMENTO MORI’ ♦

Chi ha avuto la pazienza di leggere fino a questo punto, si sarà reso conto di come la carriera di Annie Leibovitz sia stata così straordinaria e piena di esperienze e di opportunità da non lasciare praticamente spazio alla vita privata. Annie, infatti, superati i trent’anni, sembra non aver avuto neppure un attimo di respiro per pensare a costruirsi una propria famiglia o per mettere radici da qualche parte; d’altronde, come ancora oggi dichiara, uno degli elementi che le fa adorare il proprio lavoro è la possibilità di viaggiare, di visitare luoghi e di incontrare persone. Il suo motto è “finché mi muovo, sono felice” e, come la sua storia testimonia, fin dal principio ha fatto di tutto per rimanervi fedele. Eppure, un giorno, proprio la fotografia le permetterà di incontrare una persona che per la prima volta le farà desiderare di stringere un legame ben più profondo rispetto a quelli fino a quel momento sviluppati, un rapporto talmente importante da soverchiare persino quello per la sua amatissima macchina fotografia. Il nome di questa persona è Susan Sontag.

Annie Leibovitz incontra Susan Sontag alla fine del 1988: la prima ha 39 anni, la seconda 55; poco importa la differenza di età e di esperienze, perché le due donne svilupperanno un legame emotivo e intellettuale che diverrà essenziale per entrambe. Al momento del loro primo incontro non potevano essere più diverse: Susan era un’intellettuale, una donna che viveva di parole, laddove Annie viveva d’immagini. Eppure, erano complementari: ciascuna aveva qualcosa di nuovo da imparare e ciascuna rappresentava la metà inesplorata dell’altra.
Per uno strano gioco del destino, Susan Sontag, svariati anni prima di conoscere la Leibovitz, aveva scritto un saggio proprio sulla fotografia in cui definiva l’atto di scattare un’istantanea come il tentativo di «impadronirsi dell’immagine della persona che si ha di fronte e quindi di possederla, di farla propria». La sua compagna è proprio una delle maggiori fautrici di questo incantesimo di magia buona e per questo non si tira indietro a scattare moltissime foto di Susan stessa, spesso ritratti magnifici in cui la “pasionaria” dal ciuffo bianco viene ripresa in qualsiasi posa, anche in momenti di notevole intimità domestica.

Annie e Susan, entrambe viaggiatrici accanite, visitano numerosi luoghi insieme, dalla Giordania all’Egitto, dall’Italia a Parigi, dove decidono di comprarsi addirittura un appartamento, un sogno che la Sontag desiderava da lungo tempo veder realizzato. Annie aiuta la sua compagna finanziariamente, rendendole possibile concentrarsi unicamente sulla scrittura, smettendo così di dare lezioni, mentre Susan le insegna ad ammorbidire il suo carattere e a trovare piacere nella lettura; in poche parole, per ben 15 anni, le due donne si impegnano a prendersi cura l’una dell’altra, amandosi e invecchiando insieme.
Tuttavia, come si suol dire, tutte le cose belle hanno una fine. Susan Sontag infatti è malata: ha il cancro, un male che combatte da anni, sostanzialmente da quando era bambina, e che al suo ultimo stadio, manifestatosi come leucemia, finisce per ucciderla.

Annie Leibovitz è distrutta e, come in tutti i momenti difficili, l’unica cosa in cui trova consolazione è la sua cara vecchia amata: la fotografia. Nei giorni seguenti la morte di Susan, nel dicembre 2004, Annie inizia un lungo percorso di ricerca per raccogliere e unificare tutte le immagini che documentano il suo rapporto con la Sontag, che verranno poi date alle stampe e pubblicate in un libro illustrato, `A Photographer’s Life`, di fatto un vero e proprio requiem per la sua compagna di vita. `A Photographer’s Life` si rivelerà l’opera più importante composta dalla Leibovitz, la più intima, il frutto di uno scavo archeologico in grado di dissotterrare un decennio e mezzo di lavoro e di documentare amore, vita familiare, malattie, morti e nuove nascite.
Il libro si apre con le prime fotografie scattate da Annie fino a raggiungere gli anni trascorsi insieme a Susan; l’obiettivo la segue fin sul letto di morte e non l’abbandona mai, vede il declino di una creatura amatissima, prostrata da una malattia senza pietà. Vi sono immagini di Susan seduta, con un’infermiera intenta ad attaccarle la flebo della chemioterapia, o ancora la si rivede magrissima, invecchiata e con i capelli tagliati molto corti; c’è un’altra fotografia che la immortala su una barella, al termine di un’operazione andata male, mentre sta per essere caricata su un piccolo aereo per tornare a casa, oppure un’istantanea scattata negli ultimi giorni di vita, dove appare ormai irriconoscibile e deformata dalla malattia; non vi è più speranza, eppure dallo sguardo di Susan emerge tutto il suo coraggio, il senso di sfida verso un corpo che la sta abbandonando, la volontà di continuare a scrivere, di fare nuove esperienze, di vivere.
Ogni fotografia scattata da Annie in questa fase ha la potenza di un momento mori; attraverso l’obiettivo, immagine dopo immagine, la Leibovitz trova un modo per partecipare alla mutevolezza e alla mortalità della vita, immortalando la vulnerabilità e il declino della sua amata compagna. Isolando ogni singolo momento e congelandolo con quel famoso lampo di luce, scolpisce per sempre una serie infinita di testimonianze della spietata e inarrestabile azione dissolvente del tempo.
♦ LA RINASCITA CON `PILGRIMAGE` ♦

La morte di Susan Sontag ha un effetto tangibile sulla fotografia di Annie Leibovitz, tanto da riportarla alla dimensione politica e al dovere di testimoniare. Nel mondo di Annie entra così dirompente la riflessione di vita della Woolf, che darà origine il suo lavoro seguente, il libro `Pilgrimage`, uscito nel 2010. Qui, per la prima volta, la fotografa abbandona il suo campo prediletto, quello dei ritratti umani, per passare a un’esplorazione analitica dei luoghi e dei paesaggi che hanno segnato la vita dei suoi personaggi preferiti. E’ così che la Leibovitz, come molti anni prima fece il suo maestro Robert Frank, parte per un pellegrinaggio on the road, alla ricerca delle origini del proprio immaginario.
Ciò che Annie immortala con la macchina fotografica sono case, baracche, laghetti e deserti, dai quali emergono i fantasmi di molte figure amate e fotografate da un punto di vista imprevisto. L’obiettivo della macchina fotografica, questa volta, non ricerca l’originalità e l’estrosità a tutti i costi, ma si fissa su panorami e luoghi già ritratti da molti altri, costruendo immagini dalla straordinaria forza evocativa; è il ritorno alle origini di una cultura che, senza far rumore, stava per essere tragicamente dimenticata.
♦ SARAJEVO E IL FOTOGIORNALISMO ♦
Uno degli altri esiti che la relazione con Susan Sontag apporterà all’immaginario fotografico di Annie, sarà il viaggio che le due donne compiranno insieme nel 1993 a Sarajevo, dove Susan metterà in scena una celebre versione di `Aspettando Godot` di Samuel Backett, a suo parere un testo che sembrava riassumere perfettamente i contorni e le atmosfere di una città perennemente sotto assedio e annichilita dalla paura. Annie Leibovitz, dal canto suo, avrà la possibilità di realizzare un desiderio coltivato da lunga data, quell0 di mettersi alla prova in un reportage di vero e proprio fotogiornalismo.

L’obiettivo di Annie Leibovitz inizia così a raccontare il disastro di una convivenza finita fra popoli e culture, infrantasi di colpo con conseguenze terrificanti; a Sarajevo non c’è la luce elettrica, per cui la fotografa di rockstar e top-model si trova a scattare solo con l’ausilio del chiarore del sole; il bianco e nero, inoltre, diventa di rigore, prendendo il posto degli sgargianti colori tipici delle riviste di moda.
Annie Leibovitz decide di non risparmiarsi: sa di non trovarsi in quel luogo per divertimento o su commissione, ma per ricoprire il ruolo di testimone; pertanto è sua volontà quella di incontrare persone, di fare conversazioni terribili, di indignarsi, di sporcarsi, di perdere peso, di tremare di paura sentendo la morte vicina, per poi essere coraggiosa ed affrontarla: in breve, sa di trovarsi lì per cambiare la sua vita.

Nei suoi pellegrinaggi per le strade di Sarajevo, la fotografa trova un proprio personale Caronte disposto ad accompagnarla in quell’inferno, Hasan Gluhić, che diviene così il suo autista e la sua guida. Con lui Annie vivrà una delle esperienze che segneranno maggiormente il suo viaggio.
Annie e Hasan si trovano su una macchina, diretti verso l’appartamento della ragazza eletta Miss Sarejevo Assediata, quando un colpo di mortaio esplode proprio davanti a loro prendendo in pieno un ragazzo in bicicletta e squarciandogli la schiena. La Leibovitz e il suo accompagnatore tentano di metterlo sulla macchina per condurlo all’ospedale, ma il ragazzo muore nel tragitto. Furente con quella stupida guerra e con l’umanità intera, Annie scatterà una fotografia spettrale e di grande forza, quella della bicicletta caduta e della traccia di sangue lasciata dal ragazzo su un lato della strada, che nel bizzarro gioco del destino appare quale la pennellata dipinta di un pittore un po’ distratto.

Tutti i problemi che Annie si era posta fino a quel momento riguardo al proprio lavoro vengono improvvisamente spazzati via dal solo fatto di trovarsi a Sarajevo, a scattare quelle fotografie. Non c’è più il tempo di preoccuparsi se fare un ritratto o realizzare qualche altro tipo di immagine: le cose accadono tutte troppo in fretta e l’unica possibilità rimane quella di reagire.
La cosa più sorprendente che accade nell’ammirare le foto di questo reportage è l’evidenza di palesi cortocircuiti che talvolta arrivano a innescarsi: è così che il comandante dell’esercito bosniaco sembra assumere le sembianze di un annoiato modello in attesa per un servizio fotografico, mentre un ragazzo si mette in posa per baciare la sua fidanzata, senza curarsi delle persone che sfrecciano intorno a lui a cavallo di biciclette cariche di taniche d’acqua.
♦ AMORE, FAMIGLIA, CELEBRITA’ E… FOTOGRAFIA! ♦
Siamo alla fine del nostro viaggio e appare evidente come Annie Leibovitz, a tutti gli effetti, possa essere definita come una delle maggiori star della macchina fotografica del mondo, una delle poche in grado di spaziare da ritratti a paesaggi, da pubblicità a servizi su commissione, senza che i suoi scatti perdano un briciolo della qualità che da sempre li contraddistingue.

Alle infinite collaborazioni per le più celebri riviste d’America, corrispondono ormai sempre più spesso i progetti per i suoi libri, ritenuti da Annie la forma più alta in cui la propria fotografia è in grado di esprimersi. I libri, infatti, sono puri e completamente sotto il suo controllo e hanno una capacità emotiva maggiore di quanto si possa pensare; le riviste, al contrario, sono dominate dai capi redattori che molto spesso stravolgono il suo lavoro, mettendo immagini troppo piccole o coprendole di scritte, snaturando ciò che poteva essere il progetto iniziale. “Nessuno tiene al tuo lavoro o lo ama come fai tu”, suole dire Annie Leibovitz, “e se devi spiegarlo, devi poterlo presentare esattamente come vuoi”.
Nonostante le molteplici esperienze, i cambi di testata, gli ostacoli contro cui è stata costretta a misurarsi nel corso della sua vita, Annie Leibovitz mantiene tutt’ora intatta la propria onestà intellettuale e la propria esuberante e vulcanica personalità, quello spirito spigliato e avventuroso che, insieme al suo talento, è stato il fattore essenziale per permetterle di raggiungere le più alte vette della sua arte. E’ così che, destreggiandosi fra la moltiplicazione dei set, delle richieste e delle mostre in giro per il mondo, anche il look di Annie rimane sempre lo stesso, quello della ragazzina ribelle che sognava di diventare fotografa: pantaloni da uomo, camicia sformata, scarpe pratiche e una grossa borsa, contente il tesoro più prezioso, le lenti dei suoi obiettivi, quei piccoli specchi magici necessari per vedere la realtà da un punto di vista privilegiato e per poterla così rappresentare in tutte le sue mutevoli e meravigliose sfaccettature.