`Vita di Pi` di Yann Martel • Keep Calm and Have Faith
“Ho una storia da raccontare che vi farà credere in Dio”.
E’ in questo modo che Yann Martel celebra la storia contenuta in `Vita di Pi`, un racconto composto come un atto di fede profonda o un testamento spirituale, ma, al contempo, in grado di far ottenere al suo autore un successo del tutto materiale, coronato dalla vittoria al Man Booker Prize del 2002. La premessa che Yann Martel decide di porre al suo romanzo non è assolutamente da sottovalutare; anche i giudici del Booker Prize ne prestarono la dovuta attenzione, tanto da adottarla come motivazione del premio da loro conferito: perché se questo romanzo non è in grado di far credere in Dio, di sicuro è capace di infondere il dubbio sul perché non lo si stia ancora facendo.

`Vita di Pi` è un libro eccezionale, un racconto fresco, ironico, originale e incredibilmente intelligente. Tuttavia, al di sotto di queste ottime premesse, vi è molto di più. `Vita di Pi` non è un solo un romanzo leggibile, di quelli talmente godibili da essere mandati giù tutti d’un fiato come un bel sorso d’acqua fresca, non è solo un racconto coinvolgente, ma è qualcosa di diverso; scavando sotto la superficie, infatti, si raccolgono le fila di una storia che ha sì dell’incredibile, ma che è anche assai difficile da digerire e, a volte, estremamente amara da assaggiare.
`Vita di Pi` rientra a pieno diritto nella tradizione dei romanzi di viaggio, quei libri d’avventura in grado di stupire gli adulti e meravigliare i ragazzi, nei quali il protagonista, l’unico orgoglioso detentore del timone narrativo, è un viaggiatore, il cui punto di vista sembra apparentemente inoppugnabile. D’altronde, il personaggio in questione era lì, testimone di quella stupefacente avventura, mentre noi… Beh, noi eravamo solamente seduti su una poltrona, con gli occhi e la mente in balìa di un turbinio di pagine e parole.

Come per tanti suoi illustri antenati – fra i quali `Robinson Crusoe`, `I viaggi di Gulliver` o `Moby Dick` – leggendo `Vita di Pi` il lettore si trova di fronte a una storia straordinaria, dalla veridicità incerta, resa tuttavia credibile dal talento del suo narratore. In breve si tratta della narrazione di un disastro in mare, coniugato al racconto di una sopravvivenza miracolosa; niente di eccezionale per i nostri canoni, se non che gli eroi del caso sono un naufrago di soli sedici anni e, udite udite, un esemplare adulto di Tigre del Bengala. E il punto è tutto qui: come farà un ragazzino completamente solo a superare in astuzia il suo feroce compagno di viaggio, e quindi a sopravvivere, dato che sono entrambi bloccati su una scialuppa di salvataggio in preda alle correnti di un immenso oceano infestato dagli squali?

L’ispirazione che portò alla nascita di questa storia straordinaria derivò da una recensione scritta da John Updike, che Yann Martel lesse sul New York Times in giovinezza. L’articolo riguardava il romanzo di uno scrittore brasiliano, Moacyr Scliar, di nome `Max and the Cats`, ovvero un’azzardata allegoria del nazismo che coniugava avvenimenti storici con un inaspettato realismo magico. Il Max di Scliar, infatti, nell’intenzione di fuggire dai nazisti verso il Brasile, rimane vittima di un naufragio e, come il suo più famoso cugino Pi, è costretto a sopravvivere in mezzo all’oceano condividendo uno striminzito gommone di salvataggio con una belva feroce, uno dei “cats” del titolo, che in realtà è un affamato giaguaro.
La recensione di John Updike, tuttavia, nonostante riconoscesse l’originalità della storia composta da Scliar, trasudava indifferenza. Yann Martel non ricorda cosa il giornalista avesse detestato in quel libro, tanto da giudicarlo un’opera irrilevante e bollarlo come insuccesso letterario, ma poco importa, dato che quel racconto si impresse nella sua mente come uno spettro luminoso. Agli occhi del giovane scrittore, `Max and the Cats` rappresentava un perfetto esempio di equilibrio e unità fra tempo, luogo e azione e un ottimo esercizio di creatività letteraria; ma, per il momento, nulla di più.
Gli anni passarono e Yann Martel scrisse il suo primo romanzo, che, nonostante gli sforzi, non riuscì a riscuotere un grande successo. Tuttavia, lo scrittore non si arrese e continuò a scrivere e a viaggiare, tanto da iniziare a concludere una seconda storia, anche questa purtroppo destinata al fallimento. Era già la seconda volta e il risultato era un nulla di fatto.

Così, Yann Martel decise di prendere un aereo per Bombay. Per quanto possa sembrare strano, non si trattava di una mossa del tutto illogica: un periodo di vita nella vera India è in grado di calmare qualunque spirito in subbuglio e, anche se si è a corto di denaro, con una cifra considerata modesta per i nostri standard ci si può assicurare un soggiorno da nababbo per diverse settimane.
Inizialmente, la tattica intrapresa da Yann Martel non sembrò funzionare molto; Bombay era una città immensa, una folla che ti sommergeva e ti scavalcava come se fossi un ostacolo qualunque, senza nemmeno prestarti un briciolo di attenzione, tanto da farti sentire incredibilmente solo e abbandonato.

La vita di Martel era così giunta a uno stallo: aveva 33 anni sulle spalle e nulla sembrava aver trovato un giusto compimento nella sua vita; i suoi due primi romanzi erano stati un insuccesso, non aveva una famiglia a cui aggrapparsi e le emozioni di una vitta piatta e indifferente stavano per diventare insopportabili. Come se ciò non bastasse, il romanzo che si era programmato di scrivere nel suo soggiorno in India era morto; a nulla erano serviti tutti i suoi sforzi per tenerlo in vita, le emozioni dei primi momenti e tutte le parole prima immaginate e poi scritte sulla carta: se il romanzo non funziona, le descrizioni finiscono poi per risultare insipide, i personaggi non agiscono in maniera naturale e la trama arriva a languire come un binario morto. Alla fine, per quanto ci si sforzi, non vi è più nulla da fare e la resa è l’unica soluzione, per quanto dolorosa essa sia. E’ un’esperienza che tutti gli scrittori, prima o poi, sono purtroppo costretti a provare.
Arrivato a quel punto, Yann Martel aveva bisogno di un’altra storia, qualcosa che funzionasse, e anche bene, e che soprattutto fosse capace di lenire il dolore di quella perdita. Alla ricerca di un’ispirazione, prese un treno per Matheran, un posto collinare vicino a Bombay, famoso per lo splendido panorama circostante, che aveva la particolarità di non lasciare spazio al passaggio di auto o motocicli; ancora oggi a Matheran ci si arriva solo con un piccolo treno o un taxi, il resto lo si fa a piedi o al massimo a cavallo.
Come guidato da una forza superiore, quel giovane scrittore disilluso si trovò quindi a soggiornare nell’India più rurale e fu proprio lì che, come per miracolo, arrivò la tanto agognata ispirazione.

Yann Martel racconta che si trovava seduto su un grosso masso, quando improvvisamente gli ritornò in mente quella recensione letta molti anni prima, quella della storia del ragazzo naufrago e del giaguaro. Improvvisamente, la sua mente esplose in mille idee; in pochi minuti intere parti del romanzo vennero a galla: l’infanzia allo zoo, la scialuppa di salvataggio, gli animali naufragati, la compenetrazione fra temi religiosi e trattati zoologici. Finalmente, l’India era stata in grado di trasmettere il suo proverbiale influsso magico.
Nei mesi successivi, Yann Martel avrebbe febbrilmente visitato tutti i giardini zoologici del sud dell’India, trascorso lunghe ore all’interno di templi indù, chiese e moschee, esplorato intere aree urbane e naturali, cercando di penetrare l’indianità del personaggio che si stava componendo nella sua mente. Dopo sei mesi, i colori e i profumi dell’India avevano sortito il loro effetto. Yann Martel ritorna quindi in Canada, dove trascorre circa un anno e mezzo alle prese con un’inestinguibile ricerca, divisa fra la lettura di testi religiosi e l’apprendimento su libri di biologia e psicologia animale, senza dimenticare le testimonianze di calamità e naufragi. In questo modo, pian piano, `Vita di Pi` iniziò a prendere forma.

Una delle scelte che occupò per la maggior parte del tempo Yann Martel, fu quella dell’animale che avrebbe accompagnato il giovane Pi nella sua avventura. La prima ipotesi fu quella di un elefante indiano, ma quel pachiderma su una misera scialuppa di salvataggio avrebbe finito per sortire un effetto più comico del dovuto; il pensiero corse quindi ad un rinoceronte, ma come avrebbe fatto un erbivoro a sopravvivere per mesi in mezzo a uno sconfinato oceano?
Finalmente, la scelta si stabilì nell’animale che, a posteriori, sarebbe sembrato il più ovvio: una tigre. Contemporaneamente emersero le figure degli altri bizzarri abitanti della scialuppa e le caratteristiche umane di cui ognuno sarebbe diventato simbolo: vi sarebbe stata, quindi, una zebra volta a rappresentare l’esotismo delle vicende, una iena per raffigurare la vigliaccheria e una femmina di orango per l’istinto materno. Gli avvenimenti successivi al naufragio, l’isola di alghe popolata da suricati e il francese cieco, comparirono nell’immaginazione del loro autore dallo stesso indistinto limbo luminoso da cui proveniva tutto il resto.
La parte restante della faccenda, a quel punto, fu solo duro e gratificante lavoro quotidiano, che nonostante i prevedibili ostacoli, i momenti di dubbio, gli errori e le riscritture, avrebbe portato alla venuta al mondo di `Vita di Pi` e alla contemporanea rinascita del suo autore, che concluse la sua avventura più felice e più consapevole del suo piccolo e personale mondo.

Il protagonista di `Vita di Pi` si chiama Piscine Molitor Patel, è indiano, ha sedici anni, è affascinato da tutte le religioni, tanto da definirsi un cattolico mussulmano indù, e porta il nome di una piscina. Per quanto possa essere evocativo e originale, chiamarsi come una piscina francese non è il massimo per un ragazzino, dato che la pronuncia della parola “Piscine” assomiglia paurosamente a quella di “pissing”, ossia “pisciare”; come è dato immaginare, gli scherzi e i giochi dei crudeli compagni di scuola tormentano il nostro protagonista fino al giorno in cui, con un colpo da maestro, decide di essere per tutti solo e soltanto Pi.
La prima parte del romanzo di Yann Martel è ambientata in India, la patria della sua venuta al mondo, in particolare a Pondicherry, un’ex colonia francese del sud presso il Golfo del Bengala. Pi Patel nasce e cresce quindi in questo luogo, presso lo zoo locale proprietà della sua famiglia, a metà degli anni ’70, il periodo in cui Indira Gandhi era primo ministro dell’India. Insieme a Pi il lettore ripercorre passo a passo il percorso di crescita e di apprendimento avvenuto in un ambiente così particolare, che insegna a entrambi lezioni fondamentali che poi avranno una valenza indispensabile per la parte successiva dell’avventura; è così che ci vengono trasmesse importanti informazioni sul modo di educare un animale o su come tenerlo controllato, oppure l’idea di come un qualsiasi esemplare, sia esso domestico o selvaggio, si accontenti per la propria routine anche di uno spazio ristretto in cui vivere, a patto che le sue esigenze basiche siano soddisfatte nel migliore dei modi.

Superati gli spensierati anni dell’infanzia, vissuti in una sorta di paese delle meraviglie, per Pi, a questo punto, arriva l’adolescenza e con essa le annose questioni esistenziali capaci di rivoluzionare una giovane mente sulla soglia della giovinezza; per Pi, in particolare, la faccenda è piuttosto complicata, perché ciò che lo assilla è uno spasmodico e insaziabile bisogno del divino. I suoi genitori non sono persone particolarmente pie, anzi, il padre sente di appartenere a quella nuova India fondata sulla razionalità e sul progresso, che non lascia spazio al misticismo della cultura tradizionale, mentre la madre vive la propria fede con sostanziale indifferenza. Eppure, nonostante questo, Pi cresce nell’adorazione verso la religione induista e la sua pluralità di divinità, viste dai suoi occhi di bambino alla stregua dei supereroi, fino a quando non viene in contatto con le più grandi religioni monoteiste, il cattolicesimo e l’Islam, che arricchiranno la sua fede dall’amore di Cristo e della fratellanza dei credenti mussulmani. In breve tempo, quindi, Pi diventa un fedele di tutte e tre le religioni e, solo in questo modo, riesce finalmente a soddisfare la propria sete di Assoluto.

La prima sezione di `Vita di Pi` si conclude così, col termine dell’effettiva infanzia del suo protagonista, che raggiunge il proprio equilibrio spirituale, per poi essere costretto, a soli sedici anni, a lasciare la sua India per raggiungere il Canada. Lo zoo in cui è cresciuto, infatti, a causa della spietata politica di Indira Gandhi, sta chiudendo e tutti i suoi animali vengono via via inviati nei giardini zoologici del resto del mondo. E’ in questo modo che la famiglia Patel si imbarca su una nave da carico giapponese alla volta del nuovo continente, insieme a una buona parte della popolazione dello zoo destinata ad essere venduta in America. Pi è solo un ragazzino, eppure sta già intraprendendo un viaggio verso una nuova realtà; purtroppo, la vita che lo attenderà di lì in avanti non sarà quella che lui e la sua famiglia si sarebbero aspettati. E’ in maniera repentina e dolorosa, infatti, che come un pugno allo stomaco improvvisamente apprendiamo quello che è accaduto: la nave è affondata e tutta la famiglia Patel, a eccezione del figlio minore, è morta.
E’ così che il giovane Pi si trova alla deriva su una scialuppa di salvataggio, unico sopravvissuto al naufragio del cargo, insieme a una zebra con una gamba spezzata, una iena, un orango e Richard Parker, ovvero un’enorme e feroce tigre del Bengala; non potrebbero essere compagni di viaggio più diversi, eppure sono tutti accomunati dal fatto che, da un momento all’altro, sono costretti a confrontarsi con la lotta più spietata: quella per la loro stessa esistenza.

La prima settimana di sopravvivenza per Pi sarà una sequela di disperati tentativi compiuti per non lasciarsi andare all’angoscia più assoluta e, soprattutto, per non diventare parte della catena alimentare instauratasi nel bizzarro ecosistema della scialuppa di salvataggio. In breve tempo, infatti, gli unici abitanti della barca rimarranno lo stesso Pi e il temibile Richard Parker ed è a quel punto che inizieranno i veri giorni della deriva, improntati a non cadere in preda alla fame, alla sete o al delirio e, in particolare, a non far naufragare anche la speranza.

E’ come un’illuminazione improvvisa che Pi Patel realizza di non voler morire. Il suo corpo e la sua mente rifiutano questa possibilità, mentre spingono per vincere la sfida che il destino gli ha posto davanti, ovvero il tentativo di trasformare il miracolo di una sopravvivenza in un’abitudine quotidiana. Pi si rende conto di avere una volontà di vivere feroce, non propria a tutti, che prende il posto della rassegnazione e della disperazione, e che lo porterà a combattere senza risparmio alcuno, senza curarsi delle sconfitte che suo malgrado incasserà e dell’altissima probabilità di insuccesso che la sua impresa comporta. Quella stupida fame di vita, che sembra quasi pazzia ai nostri occhi, è in realtà il fattore che lo condurrà alla salvezza; è infatti insita in natura una strana dose di follia, che si integra con la capacità di ogni essere vivente di adattarsi alle situazioni anche più assurde e apparentemente impossibili. E’ grazie a questa che Pi riuscirà ad organizzare la propria quotidianità nell’angusto perimetro di una piccola scialuppa di salvataggio, realizzando al contempo la necessità di domare, se non in certa misura addomesticare, il suo scomodo compagno di viaggio: la tigre Richard Parker.
Fra Pi e Richard Parker nasce così un rapporto molto particolare, quasi simbiotico, che finirà per accomunare un uomo e una tigre in un ciclo di vita e morte; Pi arriverà infatti a provare vera e propria gratitudine nei confronti di Richard Parker, che sarà l’elemento chiave della sua avventura, il fattore che, a tutti gli effetti, lo terrà vivo. Avere una tigre a bordo ha degli svantaggi, ma, se non altro, trattiene un uomo dall’abbandonarsi alla disperazione, impedendogli di pensare al suo passato o al suo futuro o, ancora di più, alla sua tragica situazione presente, facendolo, in poche parole, sopravvivere.

`Vita di Pi` è un’opera difficile da classificare, in quanto offre molteplici livelli d’interpretazione. Se a uno sguardo superficiale si presenta unicamente come una storia di sopravvivenza e una narrazione emozionante, d’altro canto offre anche spunti per un’analisi ulteriore, in cui gli animali assurgono al ruolo d’allegorie, volte a rappresentare le verità più profonde e nascoste della natura umana.
Per quanto riguarda la parte dedicata al resoconto della vita di Pi e di Richard Parker sulla scialuppa, ci troviamo di fronte a una narrazione piuttosto prosaica, che entra nei dettagli di come materialmente gli spiriti dei due protagonisti arrivino a conformarsi alle nuove e precarie condizioni di vita. Verso il termine del viaggio, tuttavia, il racconto inizierà ad assumere dei toni quasi surreali; Pi, improvvisamente, principierà a sentire delle voci, tanto da arrivare a credere che sia Richard Parker stesso a parlargli, fino a quando, ormai nelle braccia della morte, approderà su una bizzarra isola di alghe carnivore, popolata unicamente da una sterminata colonia di suricati. A questo punto, il lettore si ritroverà in una situazione di straniamento: il patto di credulità, infatti, sembrerà venire a meno e ci si domanderà se la narrazione di Pi possa essere considerata verace, oppure se sia più opportuno metterla in discussione.

D’altronde – a parte il colloquio finale e alcuni intermezzi scritti dall’autore -, tutto il racconto è orchestrato dall’unico punto di vista di Pi Patel; egli ha il controllo delle parole e dei fatti narrati e, di conseguenza, della nostra comprensione delle personalità e degli eventi esterni. Ogni avvenimento ci viene presentato da un punto di vista unilaterale e anche la nostra opinione sugli altri personaggi, Richard Parker in primis, è veicolata dalla percezione del protagonista. Il sospetto, quindi, di essere stati ingannati, si farà strada nella mente del lettore man mano che la narrazione arriverà a distaccarsi dalla realtà, fino a trovare una conferma nelle ultime battute del nostro protagonista.
Il breve capitolo finale si svolge in Messico, dove Pi è riuscito a sbarcare e ad essere soccorso, nel momento in cui due funzionari Giapponesi arrivano all’ospedale locale per intervistarlo a proposito dell’affondamento del cargo. In un dialogo continuo, inframezzato solo dai commenti dei due intervistatori, Pi ripete la propria versione dei fatti e, al contempo, sconvolge tutti gli avvenimenti finora narranti, in quanto offre anche la testimonianza di un’altra storia completamente diversa da quella precedente. Queste poche pagine sono in grado di scuotere il lettore fuori dal limbo confortevole rappresentato dalla sospensione dell’incredulità e iniziano a porre seri dubbi sulla veridicità del testo letto fino a quel momento.

La seconda storia di Pi è priva di animali; occupa meno di dieci pagine del romanzo, eppure offre un momento di crudele e agghiacciante comprensione. Yann Martel sfodera tutto lo spietato realismo di cui è capace, fornendo una versione della storia precedente completamente anti-romantica e anti-idealista, raccontata da una posizione di disillusione e di scettica ironia, perfetta per sottolineare l’avidità, la crudeltà e la corruzione della natura umana.
Come osserva il signor Okamoto, uno dei due funzionari giapponesi, vi è una corrispondenza fra le due storie narrate da Pi; nella seconda, infatti, tutti gli animali precedentemente incontranti si incarnano in figure disperatamente umane, tanto che la zebra diventa un giovane marinaio taiwanese con una gamba fratturata, la iena il malvagio cuoco della nave, l’orango una madre e la tigre… beh, la tigre scopriamo essere nient’altro che lo stesso Pi Patel.
Al termine della seconda versione i lettori si trovano annichiliti; a cosa bisogna credere a questo punto? Al racconto iniziale, quello poetico ed edulcorato con Richard Parker, oppure a quella seconda terribile testimonianza? A questo punto, le ipotesi si sprecano. Una fra le più accreditate è che il giovane Pi Patel abbia deciso di ricostruire la propria tragica vicenda mascherandola come una bella favola, in modo da nascondere e superare il disagio e l’autentico orrore della sua vera esperienza, che ritorna a galla solo sotto espressa richiesta dei due giapponesi. Tuttavia, qualcosa continua a non funzionare. Secondo le premesse del suo autore, `Vita di Pi` doveva essere una storia che portasse a credere in Dio; ma come si può avere fede davanti a un tale abominio, come si può provare ancora speranza davanti a una realtà che assorbe qualsiasi possibilità di riscatto?

La verità è che a Yann Martel non importa quale sia la versione autentica dei fatti, anzi, paradossalmente lo considera un elemento di scarso interesse. La vera questione è il modo in cui lo spettatore arriva a percepire le due storie, ovvero la sua interpretazione puramente soggettiva. E’ così che tutta la lettura dagli avvenimenti assume i connotati di una riflessione a carattere teologico, che porta ognuno di noi a chiedersi se è preferibile credere unicamente in qualcosa che si può vedere e verificare, oppure se il vero segreto sia proprio quello di confidare in ciò che non necessariamente ha un senso logico e tangibile, ma che assomiglia di più ad un miracolo. Non vi è quindi una versione giusta o sbagliata, non c’è una risposta concreta alle nostre domande, ma ciò che la storia di Pi ci offre è una fondamentale opportunità d’introspezione.
`Vita di Pi` non ha lo scopo di dimostrare l’esistenza di Dio, ma piuttosto di giustificare la fede nella presenza di qualcosa di superiore che ci sorveglia e che è artefice del nostro destino; alcuni lettori, com’è prevedibile, potrebbero rimanere increduli di fronte a tutto questo, ma a nessuno verrebbe in mente di preferire la versione del cuoco crudele e del giovane marinaio con la gamba spezzata piuttosto che quella con zebre, tigri e suricati. E’ questa la vera forza di Pi: far superare con successo agli scettici uno dei più grossi ostacoli posti dalla fede, ovvero quello di credere all’incredibile.

Nel suo complesso, `Vita di Pi` è organizzato intorno all’annoso dibattito filosofico che si fonda sulla prevaricazione che, nel corso dei secoli, la ragione ha avuto sulla fantasia, la scienza sulla religione e il materialismo sull’idealismo. I poli stremi di questo dibattito sono rappresentati nella parte finale del romanzo proprio dalle figure dei due funzionari giapponesi: il signor Okamoto, il capo delle indagini, esemplifica la visione positivista della verità come una realtà oggettiva che può essere compresa e verificata attraverso i metodi della scienza, mentre il suo assistente, il signor Chiba, raffigura il punto di vista del romanticismo, in particolare attraverso l’enfasi e la spontanea partecipazione che dimostra di fronte alle vicende che gli vengono narrate.

Pi Patel, dal canto suo, ripudia la pretesa che molto spesso ha la ragione di essere l’unico arbitro della verità o della realtà, anche se non mette in dubbio la sua importanza nelle capacità pratiche. D’altronde è stata la ragione e l’oggettività concreta a permettere a Pi di escogitare le tecniche per sopravvivere in mezzo all’oceano, ma è stata la fantasia e la fede a rendere la sua una “storia migliore”, ovvero la lotta eroica di un ragazzino religiosamente devoto che si riscopre in grado di superare gli ostacoli di una crudele realtà materiale.
A questo punto, anche il rapporto fra Pi e Richard Parker assume un significato tutto nuovo. L’uomo e la tigre non rimangono più dunque due realtà separate, ma si compenetrano a vicenda, creando una formula perfetta per la sopravvivenza. Richard Parker rappresenta la natura animale che, in un caso estremo, entra a far parte di un ragazzo civilizzato facendolo diventare un selvaggio, capace quindi di vivere in condizioni altrimenti intollerabili. Ciò che Yann Martel suggerisce è l’ipotesi che in ogni essere umano possa esistere nascosta una qualche anima animalesca, in grado di trasformare anche un pacifico vegetariano in uno spietato assassino cannibale, se questo si presenta come l’ultima chance per sopravvivere. La fuga nella giungla di Richard Parker al termine dell’avventura, è il simbolo di come, riaccolto dalla civiltà, il lato feroce sia ormai inutile, tanto da tornare a dimorare nell’oscuro limbo da cui era provenuto.

In proposito, c’è un intenzionale gioco sui nomi dei personaggi principali del romanzo. Richard Parker, una tigre, si trova a causa di un errore materiale a diventare portatore di un nome umano. L’autore alimenta questa sottile ambiguità tanto che, iniziando a leggere il libro, le allusioni fatte da Pi sulla natura di Richard Parker suggeriscono come si possa benissimo trattare di un essere umano colui a cui si sta riferendo. Questa personificazione della figura della tigre invita il lettore a trarre gli opportuni indizi su come vi sia un’inscindibile e fondamentale duplicità fra la natura animale e quella umana.

Per quanto riguarda il nome “Pi”, invece, Yann Martel offre una chiave di lettura ancora differente. Inizialmente, sembra piuttosto complicato dare a un ragazzino il nome di una piscina, tanto che questa scelta lo porta a vivere momenti di vero imbarazzo nella sua infanzia, che ce lo fanno apparire senza dubbio meno eroico di quanto dovrebbe essere; il fatto che Piscine decida di accorciare il suo nome al simbolo matematico Pi, con la sua infinità di cifre decimali, suggerisce la dimensione filosofica del suo carattere. Altrettanto, come il numero “pi greco” non può essere individuato completamente poiché infinito, anche la personalità del Pi umano è difficile da definire tramite una qualsiasi verità prefissata, così come la sua storia è in grado di contenere una miriade di finzioni e altrettante interpretazioni.

Ciò che è certo, tuttavia, è che Pi Patel con la sua avventura ci insegna che la vera fede in Dio è apertura totale, abbandono, fiducia, in sostanza un libero atto d’amore. Amare, però, non è sempre semplice, specialmente quando il cuore di un uomo è appesantito dalla rabbia, dalla desolazione o dalla stanchezza, tanto da vederlo sprofondare repentinamente negli abissi come un nave in naufragio, da dove non sembra più possibile ripescarlo. La disperazione è un buio fitto e impenetrabile, come le notti sull’oceano, e la paura è un mare in tempesta, che sfrega come carta vetrata sulla scialuppa della nostra esistenza e rimbomba nelle nostre orecchie come se dovesse sommergerci per sempre; la folla che ci circonda e ci sorpassa estranea, invece, è cocente e invadente come un sole che non ha pietà, mentre la solitudine distrugge, come una luna luminosa e indifferente alle sofferenze umane. A volte, la sensazione è quella di essere veramente naufraghi su mare di apparente tranquillità, dove tuttavia non vi è nessuno che ci possa trovare; ci si sente prigionieri di una geometria superiore a qualsiasi cosa, dispersi e in lotta continua contro il terrore, la rabbia, la follia, la disperazione o l’apatia.

La vita nella nostra esistenza, come quella su una scialuppa, non è un granché; è prostrante fisicamente e insopportabile moralmente. L’unico trucco per sopravvivere è quello di sapersi adattare, anche a costo di sacrificare gran parte di quello che si è. La felicità si ricerca dove si può, nella consapevolezza che, anche se ci si trova negli abissi dell’inferno, ci sarà sempre un minuscolo pesce morto, una fonte di approvvigionamento, che potrà farti sentire la creatura più fortunata del mondo.

Acclamato come un nuovo classico dalla critica, `Vita di Pi` è un libro unico, l’incredibile racconto di un miracolo, in perenne sospensione fra realtà e magia, un po’ romanzo d’avventura e un po’ favola dall’anima nera. Per nostra fortuna, ci troviamo aggrappati alle parole di un grande scrittore che, attraverso la propria padronanza della prosa e dei fatti arcani, ci sfida a credere alla sua storia, lasciandoci infine con una migliore comprensione negli animali, incluso l’uomo, e molto su cui riflettere e su cui metterci in discussione.
La parole di Yann Martel riflettono la coscienza divina, riuscendo ad esprimere in pochi limpidi tratti i più puri sentimenti di gioia, di sconforto, di elevazione e di euforia, portandoci a credere in un universo allineato non solo attraverso leggi razionali, ma anche e soprattutto tramite principi morali. Fra questi, il più importante, è senza dubbio quello che noi chiamiamo Amore, che non sempre si esprime in modo chiaro, diretto o immediato, eppure è ineluttabile, sorretto dall’incrollabile fiducia in una Presenza e in un fine ultimo.
avevo pensato di non leggere il tuo post finchè non avessi visto il film. ma non ce l’ho fatta! gran pezzo e mò guardo il film :D
Ahah, grazie Curi! :D
Ho cercato di fare meno spoiler possibili nell’articolo, dato che io per prima non li amo. Il problema è che per spiegare il finale – in sostanza, il fulcro del libro – sono stata costretta ad anticipare qualche cosa. Spero di non averti rovinato il piacere del film, che è veramente molto bello, oltre che estremamente fedele al libro. Fammi sapere che ne pensi!
alla fine il film l’ho visto e non hai assolutamente rovinato il tutto! davvero bello come dicevi, ellovedichefacciobenealeggerti! :D
Sono proprio contenta :D
yeah!