FableHaven #3 •`Pinocchio` di Carlo Collodi

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Più di centotrent’anni dalla prima pubblicazione, una fama estesa a tutto il pianeta e a tutte le lingue, un fascino capace di sopravvivere indenne ai mutamenti di costume, moda, tempo e linguaggio, senza mai venire in contatto con gli abissi dell’oblio o della dimenticanza; tutto questo riassunto in una sola parola: Pinocchio!

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Basta  solo questo nome o quello del suo autore, Carlo Collodi, per rievocare in tutti noi i contorni di un’avventura fantastica e di una fiaba senza tempo, ideata più di un secolo fa da un giornalista riscopertosi scrittore, passato poi alla storia come uno dei più celeberrimi e apprezzati autori dell’infanzia. Uomini e donne, adulti e bambini, studiosi e amatori: è davvero difficile trovare qualcuno che nel mondo non sia mai venuto in contatto con la figura del burattino più famoso e globalizzato della storia della letteratura, in una qualsiasi delle sue molteplici versioni e riletture.

Con il passare dei decenni, infatti, Pinocchio è stato in grado di entrare prepotentemente nel regno della fantasia collettiva, assumendo le sembianze di un patrimonio culturale prima ancora che di un personaggio. Molti dei particolari legati alla sua figura, come il naso che si allunga al pronunciare di una bugia o l’immaginifico e stupefacente Paese dei Balocchi, tutt’ora simbolo di un tipo di divertimento effimero e deleterio, sono ormai entrati a pieno titolo come espressioni e proverbi dell’immaginario comune di diverse culture.

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Senza dubbio, una delle più fortunate caratteristiche dell’opera di Collodi, fautrice del suo successo senza rivali, è quella di possedere un enorme “potere genetico”, grazie al quale `Le avventure di Pinocchio` sono diventate più o meno consapevolmente un modello per qualsiasi forma di scrittura o narrazione. Quello di Pinocchio, infatti, è il primo libro con cui ogni bambino solitamente viene in contatto dopo l’Abbecedario, assumendo così il potere di condizionarne direttamente la fantasia e l’attitudine alla scrittura.
`Le avventure di Pinocchio`, inoltre, possiedono la non comune capacità ad offrirsi alla perpetua collaborazione con il lettore: ogni generazione è portata a rileggere il romanzo di Collodi a modo suo, analizzandolo, smontandolo e rimontandolo secondo il proprio gusto e la propria sensibilità, confrontandolo con la realtà contemporanea e applicandolo direttamente alla propria esistenza. D’altronde, il linguaggio dell’autore è così ricco, inafferrabile e fecondo di significati da permettere a qualsiasi lettore di identificare in Pinocchio l’incarnazione della propria infanzia, sia essa stata felice o sventurata, stazionaria o errabonda, anarchica o rigorosa, elevando così la sua figura a un livello di portata universale.

Non è un caso, quindi, che quello di Pinocchio rimanga un testo dall’inesauribile vitalità, oggetto di innumerevoli studi critici e di infinite riproposizioni, differenti fra loro per traduzione, adattamenti, interpretazioni o rielaborazioni creative, ma tutte con un occhio di riguardo al capolavoro originale.

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Per quanto riguarda l’Italia, la patria natale di Collodi e del suo immortale personaggio, occorre senza dubbio citare il lavoro compiuto da Carmelo Bene, che fino al 1999 continuò a riproporre la propria versione di Pinocchio a teatro, per televisione e per radio; Bene si trasforma sotto i nostri occhi in un burattino oscuro e doloroso, oppresso e schiacciato dal peso dell’autorità del Grillo, rappresentato in chiave sinistramente kafkiana, e  incarnante la paurosa deformazione della morale collettiva, che arriva a manifestarsi, ai livelli più estremi, come verità intoccabile e incontrovertibile. Con Carmelo Bene, quindi, l’indisciplina di Pinocchio appare quasi come un indispensabile meccanismo di difesa, necessario addirittura alla  sopravvivenza del suo stesso fautore.

Altro Pinocchio estremamente ribelle e tutto italiano è quello presentato pochi anni dopo, nel 2002, da Roberto Benigni, che produce e interpreta un popolare e costosissimo remake cinematografico della fiaba di Collodi, dando nuovo lustro alla figura del burattino e incarnando in una farfalla i sentimenti di magia e metamorfosi che arriveranno a pervadere l’intera e contestata pellicola.

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Infine, come non ricordare la celeberrima trasposizione d’oltreoceano, firmata dall’illustre genio di Walt Disney, che propone una versione di Pinocchio molto diversa dall’originale e marcatamente interculturale, rielaborando in espedienti e stereotipi tutto ciò che all’estero veniva inequivocabilmente inteso come “italianità”. E’ così che Geppetto, invece di un miserabile falegname, diventa un dolce e bonario artigiano di orologi a cucù, Pinocchio un tenero monello vestito da piccolo tirolese, mentre Mangiafuoco assume le sembianze di un terribile orco senza pietà, ribattezzato “Stromboli”, omonimo dell’isola tirrenica e icona delle tradizioni culturali del Sud Italia.

In ognuna di queste versioni, tuttavia, l’impronta del Pinocchio originale rimane sempre estremamente evidente: che sia la tragica marionetta di Bene, la folle maschera di Benigni o il grazioso personaggio disneyano, inconfondibile è la fisionomia del burattino della tradizione, recante inequivocabilmente con sé la leggerezza, la fantasia, l’incanto e la magia per cui viene ancora oggi tanto amato.

Ancor prima di essere un personaggio teatrale o cinematografico, però, Pinocchio è innanzitutto il suo autore: Carlo Collodi. Il motivo è perfettamente riassunto da Roberto Benigni, che lo impegnò come difesa contro chi gli imputava di non aver incluso il nome dello scrittore nei manifesti del suo film: “Collodi è un’assenza che più presenza non si può; è come dire che la Bibbia è tratta dall’omonimo romanzo di Dio! Tutti al mondo sanno che Pinocchio è di Collodi!”. Appare così evidente come sia importante conoscere innanzitutto a fondo l’autore, per poi meglio comprendere anche la sua opera.

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L’ambiente culturale in cui Carlo Collodi scriveva il suo Pinocchio, consacrandosi così all’immortalità, era quello di un’Italia ammantata da un atteggiamento di opprimente delusione, assunto da molti intellettuali dell’epoca nei confronti della realizzazione dei sogni risorgimentali; la neonata nazione veniva da loro continuamente schernita, vessata e messa di fronte ai propri limiti e alle proprie debolezze, che apparivano come difetti e ostacoli quasi insormontabili. L’ “Italietta” post-unitaria, infatti, era un paese unito solo sulla carta, ma non ancora per il suo popolo. Si diffuse così fra i pensatori dell’epoca l’idea che l’unico modo per trasformare quella terra rattoppata a forza in una nazione moderna, fosse quello di incrementare strenuamente un certo codice di valori, in grado di modificare col tempo le mentalità e le abitudini della gente; il sacrificio, il rafforzamento soggettivo della morale e il volontariato intellettuale divennero così le nuove virtù da propagandare come l’unica e doverosa medicina in grado di curare un paese ancora acerbo e di salute alquanto cagionevole.

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Carlo Collodi, dal canto suo, arrivava a rappresentare alla perfezione questo nuovo tipo di pensiero e di figura intellettuale: mazziniano convinto, dall’animo bruciante di patriottismo e dedizione alla “causa”, partecipò sia alla Prima che alla Seconda guerra di Indipendenza. Volontario nel Battaglione Toscano, combatté nel 1848, insieme al fratello Paolo, a Curtatone e a Montanara, guidato in battaglia da Giuseppe Montanelli e dai suoi studenti pisani. Dieci anni dopo tornò di nuovo a combattere, questa volta come soldato dell’esercito piemontese, per poi ritirarsi un anno dopo a Firenze, deluso e affranto in seguito alla firma della pace di Villafranca nel luglio 1859.

Raffinato giornalista e umorista sopraffino, a quel punto Collodi dimostrò come la gloria non fosse appannaggio esclusivamente dei campi di battaglia. Ciò che più lo caratterizzava era quel genere di ironia pungente e dissacrante così preziosa ed invidiabile, che gli permise, durante la sua carriera, di non cadere mai nei toni apertamente moralistici tipici degli intellettuali post-unitari, ma di distinguere il proprio operato grazie a una penna tagliente e al ricercato gusto per gli scorci storici quasi “macchiaioli” dei suoi pezzi giornalistici.

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E’ proprio questa totalizzante passione per il giornalismo, da lui stesso definita come «un bisogno giovanile destinato a consolidarsi, e a farsi quotidiano e prepotente» , a portare molti critici a chiedersi come mai, ad un certo punto, Collodi decise di cimentarsi nell’ambiente narrativo, scrivendo, oltretutto, una favola di stampo marcatamente fantastico come quella di Pinocchio. Iniziò così a farsi strada l’ipotesi che la spinta decisiva che risolvette Collodi a scrivere fiabe per bambini fu la necessità economica; ad alimentare tali sospetti, vi è in particolare la nota che Carlo Collodi accompagnò al manoscritto `Storia di un burattino` del 1881, inviato al direttore del `Giornale dei bambini` per essere pubblicato: «Ti mando questa bambinata, fanne quel che ti pare; ma, se la stampi, pagamela bene per farmi venir voglia di seguitarla». Sembra quasi che il padre letterario di Pinocchio, così come il suo padre narrativo, Geppetto, abbia dovuto attingere a una bella dose di incoscienza e avventatezza per creare e pubblicare la storia del suo burattino!

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Tuttavia, pare eccessivamente riduttivo sminuire un capolavoro come Pinocchio alle mere necessità economiche, seppur siano esse comprensibili, se facciamo riferimento a un giovane autore di origini modeste e in cerca di successo. Ciò che vi è di sbalorditivo, però, è l’eccezionale somiglianza che pare sussistere fra il Collodi bambino e il personaggio da lui creato. Per testimonianza del nipote stesso, infatti, Paolo Lorenzini, Pinocchio è proprio il ritratto del piccolo Carlo: le marachelle compiute dal burattino erano quelle che l’autore compiva da ragazzino, il carattere ribelle praticamente  lo stesso e i consigli elargiti dalla Fatina i medesimi che la madre dovette dargli a suo tempo, con pazienza e dedizione. Questa tesi è ulteriormente confermata da una sorta di “confessione” indiretta da parte di Collodi stesso che, nel volume `Storie Allegre`, afferma come egli fosse «lo scolaro più svogliato, più irrequieto e più impertinente» di tutta la scuola.

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Dunque, Collodi assurto come “ispirazione” di Pinocchio; e, viceversa, Pinocchio come riflesso letterario dell’autore bambino, nonché trasposizione dell’idea di fanciullezza e dell’insondabile confine posto a divisione fra il mondo dei bambini e quello degli adulti.

Pare così che Collodi, scrivendo Pinocchio, decise per un attimo di gettare via la propria maschera “adulta”, spogliandosi dei panni dello scrittore e del rivoluzionario intellettuale, per indossare quelli dell’uomo comune e rivelandosi per quello che era, cioè un bambino irrequieto e birbante, come tanti ce ne furono e tanti ce ne saranno. Da qui, più che dal “vile denaro”, proviene probabilmente l’ispirazione  a creare un personaggio di portata universale, di matrice fantastica e al contempo così reale, vicino a ognuno di noi, alle nostre fanciullezze trascorse o presenti, e a tutto ciò che esse portano via con sé.

Che `Le avventure di Pinocchio` non sia un testo qualunque, è Collodi stesso a dichiararlo, sin dall’inizio del suo racconto:

«C’era una volta…
– Un re! – diranno subito i miei piccoli amici lettori.
– No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno

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Nemmeno il tempo di iniziare a leggere ed ecco che, già dall’incipit, l’autore ci regala il primo colpo di scena. Collodi, giornalista esperto e scanzonato,  sa perfettamente come sorprendere i propri lettori e decide pertanto di iniziare la propria opera stuzzicandone la fantasia. Niente imprese epiche, nessun personaggio memorabile da cui iniziare: solo un misero tronchetto di legno, e neppure da lusso, ma «un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze». Questo è un particolare molto importante da ricordare; infatti, nonostante le straordinarie imprese e le avventure prodigiose che vedranno Pinocchio come protagonista, l’autore fin dal principio tiene fortemente a sottolineare le sue origini, che sono radici povere, comuni, addirittura miserabili.

Il problema della mancanza materiale nell’opera collodiana è una tematica continua e rimarcata frequentemente durante tutto il corso della narrazione. L’indigenza e la sobrietà della realtà popolare e contadina, infatti, saranno gli elementi che balzeranno subito agli occhi di chi legge, soprattutto per quanto riguarda i giovani lettori moderni, abituati a conoscere Pinocchio nella bizzarra e scintillante versione disneyana.

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La società in cui il Pinocchio originale è ambientato è quella di un’Italia segnata dalla povertà e dalle barbarie, abitata da gente comune e modesta, abituata a basare la propria sussistenza sull’agricoltura, sulla pesca o sulle più umili forme di artigianato, come quelle praticate dallo stesso Geppetto e da Mastro Ciliegia. In questo ambiente miserabile e abbandonato a se stesso, il tema predominante è quello di una fame nera e spietata, che colpisce chiunque senza distinzione e miete implacabile le proprie vittime. Tutto ciò Collodi non manca mai di ricordarcelo, dato che le sofferenze dell’inedia saranno più volte provate dal suo piccolo protagonista: basti pensare agli stenti che Pinocchio subirà quando Geppetto finirà in galera o quando rimarrà suo malgrado intrappolato in una tagliola, in quanto affamato e alla ricerca di un po’ di uva per ristorarsi. Ed ecco che, in questo modo, riconosciamo anche la dimensione tragica e oscura caratteristica di gran parte della tradizione fiabesca popolare, mai manchevole nel sottolineare la precarietà e la sofferenza delle masse contadine rispetto all’agio delle classi superiori.

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La povertà iniziale e costante sarà identificata dal lettore anche nel nome stesso del protagonista del racconto, “Pinocchio” appunto, il cui significato etimologico ci verrà offerto da Geppetto stesso, attraverso una spiegazione schietta e affascinante: «Che nome metterò – disse fra sé e sé. –Lo voglio chiamare Pinocchio. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina!».

Tutto il cammino che Pinocchio compirà nel corso della narrazione sarà un percorso di deviazione dai consigli degli adulti: i grandi si preoccuperanno più e più volte di dire a Pinocchio come comportarsi per diventare un ragazzino perbene e Pinocchio, dopo un iniziale momento di buon senso, subirà un imprevisto o una tentazione che gli faranno invertire la rotta sul percorso stabilito. Tali deviazioni saranno della natura più disparata, dal suono dei pifferi del Teatro dei Burattini portato dal vento, agli incontri deleteri, come quello con il Gatto e la Volpe o, ancora, dalla ricerca di cibo e ristoro alle menzogne dei compagni di scuola.

Ma chi è, dunque, Pinocchio, un personaggio così volubile e ingenuo da lasciar condizionare il proprio cammino dai fattori più disparati?

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Pinocchio è innanzitutto un burattino, particolare da non sottovalutare, se lo pensiamo come immagine e incarnazione di uno spirito alimentato unicamente da forze esterne e da impulsi incontrollabili. Pinocchio è dunque un giocattolo, una marionetta fatta di legno e, come tale, possiede i desideri elementari della natura vegetale e una vitalità di tipo animale, risvegliata soprattutto da tutto ciò che è selvatico e  recalcitrante a qualsivoglia regola o virtù umana.

Pinocchio, inoltre, ha la fisionomia del ragazzino cresciuto troppo in fretta e senza alcun tipo di guida: non è assolutamente ubbidiente o modello di onestà e compostezza, è sospettoso per istinto nei confronti dei libri e dei maestri e per niente adatto ad assumere il ruolo di “scolaro”  integerrimo; insomma, Collodi crea un personaggio fortemente contestato e imperfetto, al quale qualsiasi lettore, soprattutto se giovane, è in grado di affezionarsi immediatamente, per attrazione o per contagio.

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Nonostante questo, Pinocchio può essere visto anche come un piccolo “eroe”, a modo suo, ovviamente; benché non abbia alcun potere particolare, tranne quello di cacciarsi continuamente nei guai, e non esca sempre vittorioso dalle situazioni, è, malgrado tutto, estremamente “reale”. E’ una figura che sbaglia e  impara, che offende e viene offesa, che disubbidisce e si redime, un po’ come tutti i bambini, sia quelli di oggi – i “piccoli lettori” a cui spesso Collodi si rivolge con grande tenerezza – che quelli di ieri, i quali, come l’autore stesso, rievocano attraverso Pinocchio la propria infanzia con dolce nostalgia e, forse, con qualche piccolo rimpianto.

Nel profondo Pinocchio è un personaggio di buon cuore, e le due facce della sua personalità, quella ribelle e quella virtuosa, si alterneranno vorticosamente per tutta la durata del racconto. Ciò verrà evidenziato in maniera molto significativa dall’autore, che descriverà in questo modo il naturale sdoppiamento della coscienza umana, che si muove inarrestabile fra gli estremi del Bene e del Male  e che rompe la moralità anche della persona apparentemente più integerrima.

Pinocchio è dunque contemporaneamente eroe “buono” e “cattivo”, è il protagonista delle vicende ma anche il suo primo antagonista, rifiuta le regole ma, di conseguenza, diventa schiavo di ciò che non conosce e non riesce a controllare; Pinocchio si tramuta così in simbolo per tutti quei “burattini” che si ribellano e fuggono dalle proprie responsabilità, non riuscendo però mai a maturare e, quindi, a trasformarsi in “bimbi veri”.

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L’atto generativo che porterà alla nascita di Pinocchio ha quell’inconsapevolezza tipica di ogni concepimento; Geppetto,  al momento di acquistare il pezzo di legno dalla bottega di Mastro Ciliegia, vuole solamente un burattino speciale, che sappia cantare e ballare e, soprattutto, fargli guadagnare qualche soldo; ma poiché il legno con cui è fatto Pinocchio è di materia magica, ed è in attesa di realizzare il proprio destino, il burattino che Geppetto scolpirà, diventando allo stesso tempo padre e demiurgo, sarà meraviglioso davvero e, cosa ancor più sorprendente, possederà il dono della vita.

Tuttavia, una volta compiuto, l’atto generativo sarà ineludibile: non si potrà più tornare indietro. Geppetto si troverà così ad affrontare la propria paternità, che sarà quanto mai tormentata e sofferta, e caratterizzata dal più spietato scontro generazionale. Geppetto, fin dal principio, si dimostra  infatti un padre estremamente tradizionale: ciò che impone al proprio figliolo è la legge e l’ordine, nulla di più, due principi assolutamente inaccettabili per un burattino forgiato nell’elemento dell’infanzia e del desiderio sfrenato. E’ così che, appena gli vengono scolpite le gambe, Pinocchio fugge immediatamente dal padre-padrone, fino a quando la sua fuga sarà fermata dalla “legge”, questa volta nella sua veste più autentica, rappresentata dal carabiniere; questi inizialmente restituirà il figlio a Geppetto, per poi, inspiegabilmente, arrestarlo.
A questo punto, per la prima volta dall’inizio delle vicende, Pinocchio è veramente libero, ma è anche affamato, pertanto decide di tornare a casa, ed è qui che incontrerà il primo personaggio fantastico, ovvero il Grillo Parlante.

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Il Grillo rappresenta la prima trasformazione di una parte della personalità di Pinocchio in animale; è senza ombra di dubbio la coscienza quella incarnata dal piccolo insetto, quel frammento della nostra anima che conosce i nostri segreti più profondi e vi parla costantemente, quella  vocina che, nell’oscura solitudine della mente, dirige lo scontro fra le nostre opposte tendenze. Durante l’incontro con Pinocchio, il Grillo Parlante gli impartirà sagge e altrettanto pedanti lezioni di vita, senza però trovare alcun riscontro da parte del burattino, che dichiarerà di voler vivere il proprio sogno d’evasione e di non badare alle consuetudini civili e morali che la società ha deciso imporgli. E’ così che la coscienza, e il Grillo naturalmente, verranno zittiti con una poderosa martellata sul capo.

Geppetto, rilasciato dai carabinieri, ritorna a questo punto a casa. Ha imparato la lezione, non cerca più di mortificare Pinocchio, ma, come un buon padre, si sacrifica per lui: si toglie il cibo di bocca per offrilo al figlio e vende la propria giacchetta per comprargli l’Abbecedario; come il Grillo prima di lui, inoltre, cerca di impartire alla sua creatura lezioni di moralità e buon comportamento, ma Pinocchio rimane sordo a tutto ciò. Dopo gli iniziali buoni propositi, infatti, smarrirà di nuovo la retta via e si caccerà ancora nei guai.

E’ così che dal IX capitolo inizia il solitario vagabondaggio di Pinocchio che, nel rifiuto del padre-legge e delle regole della civiltà, si dedica all’esplorazione del proprio desiderio sfrenato. Dal IX capitolo assistiamo anche alla scomparsa di Geppetto, che diventerà un personaggio in absentia, per poi ricomparire fisicamente solo al termine del racconto. Geppetto non può far più nulla per Pinocchio, che si addentra in lande distruttive e pericolose, passando ben presto dal desiderio ad un guaio dietro l’altro, in un susseguirsi di incidenti e incontri sempre più fantasiosi e rocamboleschi; ed è qui che, certamente, inizia la fase più divertente di tutte le sue avventure.

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Il primo atto dell’esplorazione di Pinocchio inizia, guarda caso, con il rifiuto della scuola e con l’ingresso nel Gran Teatro dei Burattini, arrivando ad incontrare uno dei personaggi più celebri dell’intera fiaba collodiana: Mangiafuoco. Il burattinaio è immagine antitetica di Geppetto e allegoria dell’esercizio del potere; è in quest’ottica che Collodi descrive la sua doppia personalità, fatta contemporaneamente di crudeltà e sentimentalismo, forza bruta e slanci di generoso affetto, cattiveria e bontà apparente, tanto che, salvando Pinocchio, condannerà alla morte un altro innocente. L’incontro con Mangiafuoco segnerà la prima vera difficoltà incontrata da Pinocchio lungo il suo cammino, tanto che rischierà di regredire alla propria condizione iniziale, quella di legno da bruciare, fino a quando un atto di deliberato eroismo gli permetterà di proseguire il suo cammino.

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Pinocchio verrà in contatto con la morte in molte altre occasioni, tuttavia mai tanto spietate e spaventose come nel momento in cui incontrerà il Gatto e la Volpe. I due malandrini sono le guide devianti di Pinocchio per eccellenza e presenteranno un ulteriore ostacolo da superare rispetto all’incontro con Mangiafuoco; infatti, dapprima si presenteranno come «buoni consiglieri», amici disinteressati e voci del desiderio, per poi rendere l’avventura di Pinocchio ancora più pericolosa. La trappola, in questo caso, ha quindi un duplice aspetto, in quanto la vera insidia è subdola e nascosta da apparenze rassicuranti.

La scelta dei due animali raffiguranti le personalità dei briganti da parte di Collodi è, come sempre, non casuale: la Volpe è fin dall’antichità animale rappresentante l’astuzia e l’inganno per eccellenza, specchio dei desideri più oscuri e reconditi della natura umana. E’ infatti lei che, lusinghiera e affabulatrice, indurrà Pinocchio a cadere nella rete dei propri sogni assurdi e proibiti. Il Gatto, invece, viene ritratto come un animale apparentemente innocuo, ingenuo e sornione, tanto che Collodi lo descriverà come finto cieco e ripetente a pappagallo le parole pronunciate dalla Volpe. Il Gatto, tuttavia, è anche un felino, e come tale ne possiede la spietatezza. E’ lui il braccio armato, è lui che agisce attivamente per eliminare in maniera repentina e feroce chiunque tenterà di avvertire Pinocchio del pericolo ed è lui che tenterà di uccidere il burattino stesso impiccandolo alla Quercia Grande.

Nonostante tutto, per quanto pericolosi, il Gatto e la Volpe non saranno i nemici più spietati che Pinocchio dovrà affrontare; in fondo, loro sono due malfattori, due sconosciuti che si divertono a frodare chiunque sia più ingenuo o più debole di loro. Ciò da cui Pinocchio dovrà imparare veramente a guardarsi, invece, sarà dal pericolo che si nasconderà sotto le mentite spoglie dell’amore e dell’amicizia, che verrà rappresentato dal suo più caro compagno e, allo stesso tempo, dalla sua più dichiarata nemesi: Lucignolo.

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Lucignolo è l’ultimo degli antagonisti di cui il lettore verrà a conoscenza; viene fuori dal nulla e nel nulla scompare, ma non a caso, dato che, in questo modo, Collodi riesce a sottolinearne ancora maggiormente la carica fortemente negativa. Lucignolo è il personaggio che imbastirà l’inganno più grande per Pinocchio e che lo porterà pertanto più vicino alla disfatta, di cui lui stesso rimarrà vittima. Alla fine delle sue avventure, Pinocchio lo riconoscerà nell’asino morente davanti a lui e, commuovendosi, lo saluterà e lo perdonerà, appena prima di trasformarsi in bambino vero. In questo modo, avviene la riconciliazione da parte del protagonista con una persona che gli ha causato una profonda sofferenza e, allo stesso tempo, con la parte più malvagia di sé. Con la morte di Lucignolo, infatti, si spegne definitivamente anche la carica negativa più profonda e radicata dell’animo di Pinocchio.

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Nella sua difficoltosa erranza, tuttavia, Pinocchio non sarà mai solo. O, meglio, lo sarà fino al XV capitolo, quando toccherà con mano la morte e vivrà, pertanto, l’esperienza più estrema. In quel momento, Pinocchio incontrerà anche il primo personaggio femminile del racconto, che sarà una figura incantata e, dal principio, addirittura morta. Pinocchio, in fuga dagli assassini, giungerà infatti alle porte di una tetra casina bianca, dalla quale si affaccerà, richiamata dalle sue disperate grida d’aiuto, una bella bambina, dai capelli turchini e dal viso bianco come un’immagine di cera, che gli dirà: «In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti».

Inizialmente, quindi, la Fata bambina non aiuterà Pinocchio. Prima di un suo intervento, infatti, vedremo il burattino toccare il fondo e, a causa delle sue azioni sconsiderate, sfiorare persino la dipartita. E’ quando Pinocchio sembrerà morto, come la bambina stessa diceva di essere, giungendo così a una condizione di assoluta parità con lei, che la Fata si rivelerà nella sua vera natura e deciderà di salvarlo.

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In un primo momento, la Fata vorrà essere la sorellina di Pinocchio, e, al contempo, lo instraderà sulla retta via, quella del controllo del desiderio e del capriccio, ponendolo davanti alle reali conseguenze delle sue azioni; è in quest’ottica che, ad esempio, farà entrare nella stanza dove giace Pinocchio la bara trasportata dai quattro conigli neri, in modo da convincerlo a prendere la medicina. Già da questi primi episodi, la Fata si configurerà come l’immagine più solida e costante nella vita di Pinocchio, assumendo così i caratteri della donna nel suo ruolo all’interno della famiglia ottocentesca, custode del focolare domestico e fonte di educazione e ordine.

Nonostante questa prima parvenza di famiglia, però, Pinocchio continuerà inesorabilmente a fuggire e a cacciarsi nei guai. Infatti, si farà nuovamente ingannare dal Gatto e dalla Volpe, si recherà nel paese degli Acchiappa-Citrulli, verrà messo in prigione dal giudice Gorilla e sarà perfino costretto a fare il cane da guardia. Poi, nell’isola delle Api Industriose, ritroverà di nuovo la figura materna.

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Questa volta la Fatina non sarà più rappresentata nelle sembianze di una bambina, ma in quelle di una donna. Morta la sorellina, infatti, nascerà la madre. Eppure, di nuovo, Pinocchio fuggirà per altre due volte, affrontando prove sempre più difficili e andando incontro a continui pericoli e terrificanti metamorfosi. Nonostante tutto, la madre  sarà sempre presente, direttamente o indirettamente,  con durezza e dolcezza al contempo, per guidarlo e perdonarlo, malgrado le promesse costantemente tradite e gli abbandoni subiti. Tuttavia, sarà proprio attraverso la dimensione della fuga continua che Pinocchio riuscirà ad affrontare i propri limiti e a superarli, lasciando dietro di sé la dimensione dell’infanzia e conquistandosi lo status di “bambino vero”.

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Quella della Fata Turchina,  è una delle figure più equivocate e complesse dell’intero racconto, dati i suoi continui trasformismi apparentemente inspiegabili. Come il Gatto e la Volpe saranno le guide negative, la Fatina sarà il punto di riferimento positivo per Pinocchio nel corso di tutte le sue avventure; sempre latente eppure al contempo presente, la Fata possiede attributi sovrumani e, grazie a questi, subisce continue trasmutazioni: prima la vedremo come una Bambina morta, poi come una Sorellina, poi Madre e Contadina e infine Capretta. Le trasfigurazioni della Fata, in realtà, saranno l’allegoria tangibile delle varie fasi di crescita che Pinocchio attraverserà nel suo percorso di vita, che si identificheranno, pertanto, in ruoli ed età differenti, più consoni a guidare il cammino del burattino in quel preciso momento storico. Non a caso, l’ultima apparizione della Fata avverrà in sogno: ormai Pinocchio, giunto al termine delle sue avventure, sta per trasformarsi in un bambino vero, la maturazione è arrivata a compimento e l’immagine della guida femminile non è più necessaria.

Nel corso della narrazione di Pinocchio arriva a delinearsi così un nuovo modello di famiglia, lontano da quello tradizionale, nel quale, però, ogni componente è in grado di assolvere il proprio ruolo nella crescita del figlio. Per quanto il padre, rappresentato da Geppetto, e la madre, la Fatina, non arriveranno mai ad incontrarsi, entrambi costituiranno due figure di riferimento fondamentali, che aiuteranno a loro modo Pinocchio ad abbandonare il mondo dell’infanzia e, seppur dolorosamente, ad entrare in quello degli adulti.

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Geppetto apparentemente fallisce come padre, in quando cerca fin dal primo momento di imporre a Pinocchio un’etica e una morale superiore che il fanciullo non sente interiormente dentro di sé; pertanto, ciò che provoca è solo una reazione violenta, di fuga e ribellione, dettata da un desiderio che sente imperante il bisogno di essere soddisfatto. Al contrario, il lavoro compiuto dalla Fata è molto più accorto e graduale e spinge Pinocchio ad agire autonomamente e a rendere sano il proprio desiderio, non condannandolo in maniera totalizzante. In questo modo, Pinocchio deciderà in maniera indipendente di studiare e di lavorare per cambiare la propria vita; le promesse e i propositi scompariranno come parole al vento e il bambino potrà dire di essere veramente cresciuto.

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Geppetto, tuttavia, rimarrà nei pensieri e nelle parole del burattino per tutto il romanzo. Sebbene assente per gran parte delle vicende, lo ritroveremo al termine, nella pancia del pescecane; a quel punto i ruoli si invertiranno: sarà Pinocchio ad assumere le sembianze della figura paterna, diventando quel genitore che Geppetto stesso non era riuscito ad essere e, davanti alla necessità, adempirà alla propria responsabilizzazione.

In tutto questo, Collodi rimane insindacabilmente il narratore del suo romanzo, sorgente e compimento di tutte le vicende. Egli strizza più volte l’occhio al lettore, dando così origine ad un atteggiamento piuttosto ambiguo; da un lato, infatti, lo scrittore accetta l’autorità come garante dell’ordine e della legge, da buon cittadino quale dimostrò di essere, ma, d’altra parte, la rifiuta sarcasticamente, lasciando emergere tutto il proprio spirito liberale.

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Collodi accetta e condivide i valori dell’epoca, come l’importanza del lavoro e dell’impegno, e il rispetto per le regole comuni, ma, allo stesso tempo, prova un netto compiacimento nell’illustrare al lettore le monellerie compiute da Pinocchio, attuando i funambolici e stupefacenti capovolgimenti di trama per cui la sua opera è diventata celebre. Il fascino e la segreta approvazione che l’autore sembra provare nei confronti delle birbonate del suo personaggio sono spiegati da alcuni critici come il naturale risultato del mazzinianesimo dello scrittore: è proprio il ragazzaccio di strada, appartenente al popolo più povero e umile, infatti, che agli occhi dei rivoluzionari risorgimentali appariva come l’energia viva e non addomesticabile capace di ribaltare l’ordine delle cose, e in grado di salvare la nazione dalla decadenza e dall’asservimento al compromesso sabaudo.

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Collodi, dunque, si dimostra un padre narrativo estremamente controverso, di spirito libertario e, al contempo, dall’attitudine di severa guida morale. Collodi, fondamentalmente, appare anche come un pessimista: nevrotico, malinconico e ossessionato dalla figura materna, usa tuttavia l’umorismo e l’ironia più sarcastica e tagliente per superare i propri limiti, trattando inoltre la fanciullezza con amorevole benevolenza e divertita cordialità. E’ questa la vera rivoluzione che Collodi attuerà nel mondo della letteratura dell’infanzia: per la prima volta, infatti, troveremo un narratore che non considererà il bambino come uno scolaro, da punire e bacchettare, ma come interlocutore  in grado di accettare le regole del gioco e con cui discutere, alla pari che con un adulto.

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Carlo Collodi non si fida del mondo degli adulti, pieno di contraddizioni e dominato dall’avidità e dall’egoismo, ma nutre un’inesauribile fiducia nei confronti del potere della fanciullezza e nella volontà di vivere e crescere che porta con sé. L’autore parla così contemporaneamente a due tipi di pubblico: agli adulti, rivelandogli al meraviglia dell’infanzia da loro troppo spesso dimenticata, e ai bambini, conquistando la loro fantasia e parlandogli della loro natura. Qualunque fanciullo, infatti, potrà riconoscere in questa grandiosa opera la propria ingenua anarchia, il proprio bisogno di libertà, la volontà di emanciparsi dai genitori e, al contempo, la paura di essere abbandonato o emarginato.

Questo, infine, è il segreto de `Le avventure di Pinocchio`, che ha permesso a quest’opera di vincere l’avanzata del tempo e della modernità, mantenendo intatto tutto il suo indomito fascino. Il messaggio di non limitarsi ad essere “burattini” nelle mani altrui, di non lasciarsi andare ad una vita passiva, ma, al contrario, di camminare sempre in avanti, a testa alta e ad occhi ben aperti, è un monito valido per qualsiasi uomo, di qualsiasi epoca e di qualsiasi estrazione sociale; e, d’altronde, come può non essere ascoltato, soprattutto se a narrarlo è la voce della fantasia e dell’incanto, della magia e dell’amore, elementi che mai smetteranno di affascinare la mutevole e stupefacente natura umana.

Comments
3 Responses to “FableHaven #3 •`Pinocchio` di Carlo Collodi”
  1. RigelGrace ha detto:

    Credits:
    • HEADER IMAGE: `Pinocchio` by Gris Grimly e Guillermo Del Toro©
    • TITLE IMAGES: `Pinocchio` by October Illustrations©
    http://octoberillustrations.blogspot.it/
    • IMAGE 1: Walt Disney’s concept art for `Pinocchio` by Gustaf Tenggren©
    http://www.gustaftenggren.com/
    • IMAGE 2: `Pinocchio 3D` fot IPAD by Ramon PLA©

    Dr. Jekyll & Mr. Hyde

    • IMAGE 3: `Pinocchio` by Carmelo Bene
    • IMAGE 4: `Pinocchio` by Walt Disney
    • IMAGE 5: `Pinocchio` by Gris Grimly e Guillermo Del Toro©
    • IMAGE 6: Carlo Collodi
    • IMAGE 7: `Pinocchio` by Daria Palotti©
    http://antitesi.wix.com/dariapalotti
    • IMAGE 8: `Pinocchio` by Yigit Koroglu©
    http://www.yigitkoroglu.com/
    • IMAGE 9: Walt Disney’s concept art for `Pinocchio` by Gustaf Tenggren©
    http://www.gustaftenggren.com/
    • IMAGE 10: `Pinocchio` by Roberto Innocenti©
    http://www.robertoinnocenti.com/
    • IMAGE 11: `Pinocchio` by Roberto Innocenti©
    http://www.robertoinnocenti.com/
    • IMAGE 12: `Pinocchio` by Antonio Bobò©
    • IMAGE 13: `Pinocchio` by Gris Grimly e Guillermo Del Toro©
    • IMAGE 14: Walt Disney’s concept art for `Pinocchio` by Gustaf Tenggren©
    http://www.gustaftenggren.com/
    • IMAGE 15: `Pinocchio` by Charles Folkard©
    • IMAGE 16: `Pinocchio` by Roberto Innocenti©
    http://www.robertoinnocenti.com/
    • IMAGE 17: `Pinocchio` by Roberto Innocenti©
    http://www.robertoinnocenti.com/
    • IMAGE 18: `Pinocchio 3D` fot IPAD by Ramon PLA©

    Dr. Jekyll & Mr. Hyde

    • IMAGE 19: Walt Disney’s concept art for `Pinocchio`©
    • IMAGE 20: `Pinocchio` by Roberto Innocenti©
    http://www.robertoinnocenti.com/
    • IMAGE 21: `Pinocchio` by Lorenzo Mattotti©
    http://www.mattotti.com/
    • IMAGE 22: `Pinocchio` by Milo Manara©
    http://www.milomanara.it/
    • IMAGE 23: `Pinocchio and the Blue Fairy` by Kat Cameron©
    http://www.katcameron.com/
    • IMAGE 24: Walt Disney’s concept art for `Pinocchio` by Gustaf Tenggren©
    http://www.gustaftenggren.com/
    • IMAGE 25: `Pinocchio` by Enzo D’Alò
    • IMAGE 26: `Pinocchio` by Maria Augusta Cavalieri©
    • IMAGE 27: `Pinocchio` by Iassen Ghiuselev©
    http://www.iassen.com/
    • IMAGE 28: `Stromboli Catch` by Lior Arditi©
    http://lior-arditi.daportfolio.com/

  2. glencoe ha detto:

    consiglio fortemente questa riflessione su pinocchio di certo lunga, ma a mio avviso molto interessante dell’autore che conosco personalmente posso dire che lo seguo da circa dieci anni e che non mi ha mai deluso.

    http://etadellainnocenza.wordpress.com/2013/05/17/una-vecchia-storia-nascosta-1/

  3. Anonimo ha detto:

    bellissima

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