`I sommersi e i salvati` di Primo Levi • La memoria dell’offesa

«Since then, at an uncertain hour,
That agony returns:
And till my ghastly tale is told
This heart within me burns»[1].
~ Samuel T. Coleridge, ` The Rime of the Ancient Mariner`

Tornato tra i banchi del laboratorio di un tempo, di nuovo con il grembiule addosso, Primo Levi decide di farsi fotografare da Bernard Gotfryd accanto ai vecchi ferri del mestiere. È il 1985, forse il 1986: Levi è in pensione da anni e guarda dritto davanti a sé; il suo sguardo appare intenso, seppur velato di tristezza. La mano destra stringe il polso sinistro – un gesto consueto per il chimico -, mentre il braccio pare poggiato quasi distrattamente sul tavolo di lavoro.

Davanti all’obiettivo Primo Levi sembra decisamente invecchiato, laddove nelle istantanee degli anni precedenti era solito a mostrare un’energia caparbia e risoluta, mescolata alla ponderatezza e alla riflessività proprie dei suoi scritti. A questo proposito, interrogato da Stampa Sera sull’argomento, egli aveva ironicamente risposto: «Vecchio io? In assoluto, sì. Lo dicono l’anagrafe, la presbiopia, le chiome grigie, i figli ormai adulti».
Eppure, Primo Levi non si era mai sentito davvero vecchio. Dietro la parvenza dell’adulto, del borghese e del grande intellettuale, infatti, era sempre rimasto un bambino, che ancora a sessant’anni amava giocare, competere e risolvere problemi. Mai aveva perso la curiosità per il mondo intorno a sé, così come per la natura, la stessa che era stata oggetto dei suoi primi esperimenti infantili e adolescenziali. La fotografia di Bernard Gotfryd, dunque, si limitava a mostrare l’altra faccia di quell’eterno fanciullo, quella dove la saggezza dell’esperienza giungeva a mescolarsi con il peso degli anni trascorsi. Primo Levi, d’altronde, era sempre stato un uomo saggio; forse addirittura troppo, secondo il parere di alcuni.
Nel 1978, in un’intervista rilasciata a Giorgina Arian Levi poco dopo l’uscita de `La chiave a stella`, Primo Levi aveva rivelato di avere in cantiere un nuovo progetto letterario:
«C’è un tema, a proposito di Lager, che mi tenta e che mi pare anche attuale, ossia rivedere l’esperienza del Lager dopo trentacinque anni: rivederla con gli occhi miei, con gli occhi dell’indifferente, con gli occhi del giovane che queste cose non sa, ed anche con gli occhi dell’avversario. Mi pare che ne possa nascere uno studio sociologico, già tentato da altri forse, ma su cui credo di avere qualche cosa di mio personale da dire».

Un ritorno al passato, dunque, un rinnovato salto negli abissi della Shoah, intrapreso questa volta non più tramite lo sguardo del memorialista o del sopravvissuto, ma attraverso quello del sociologo e dello storico. In tal senso, il rapporto fra oppresso e oppressore, fra vittima e carnefice, era un tema su cui spesso la letteratura novecentesca si era interrogata, non sempre ottenendo i risultati sperati. Il rischio, infatti, era quello di approdare all’interpretazione più ingenua, quella più manichea, quella che vedeva contrapporsi da un lato l’oppressore puro, privo di dubbi o di esitazioni, e dall’altro la vittima innocente, santificata semplicemente in quanto tale. Un rischio che Levi non era assolutamente disposto a correre.

A partire dal 1979, dunque, Primo Levi iniziò a comporre il suo nuovo saggio, continuando nel frattempo a intervenire con assiduità su giornali e riviste. Da mesi, infatti, diversi media italiani ed europei seguitavano a diffondere voci e tesi negazioniste, in particolare quelle del francese Robert Faurisson che, dall’alto della sua cattedra universitaria, era giunto a sostenere come i regimi nazi-fascisti fossero stati ingiustamente denigrati e la memoria di quegli anni inquinata da false testimonianze. I Lager, affermava Faurisson, non sarebbero infatti mai esistiti o, meglio, sarebbero stati un’invenzione architettata degli stessi ebrei al solo scopo di calunniare i nazisti. Allo stesso modo, il `Diario` di Anne Frank non rappresentava che un falso storico, mentre Auschwitz non era che un’abile messa in scena, una menzogna invereconda, al pari della narrazione sui forni crematori e sulle camere a gas.
Primo Levi, dal canto suo, conosceva fin troppo bene i meccanismi mentali atti alla rimozione della colpa: la colpa infatti è fastidiosa, è scomoda e ingombrante e, in alcuni casi, anche pericolosa. Si inizia dunque con il negarla, prima in pubblico – nella maniera più eclatante e scandalosa possibile –, poi anche in privato, di fronte a se stessi e alla propria coscienza. È così che, un passo alla volta, il sortilegio giunge a compiersi, per cui il nero diventa bianco, i torti subiti vengono raddrizzati e i morti non sono più morti, poiché in realtà non vi è stata alcuna persecuzione e alcun assassinio.

A tal proposito, i superstiti della Shoah, fin dai mesi successivi alla liberazione, sentivano come ricordare sarebbe stato per loro difficile, quasi impossibile. Tutti indistintamente erano ossessionati dalla stessa paura, ossia che la propria sofferenza continuasse ad essere ignorata e che la pagina di vergogna a cui avevano assistito non venisse mai scritta. In merito, Primo Levi racconta come lui e i suoi compagni fossero stati a lungo perseguitati dallo stesso incubo, nel quale essi si raffiguravano nell’atto di raccontare la propria storia a qualcuno, fino a quando l’interlocutore a cui si rivolgevano non voltava loro le spalle, svanendo per sempre. Una speranza, questa, nutrita dagli stessi gerarchi nazisti, i quali contavano di cancellare così ogni traccia della propria colpa.

Le prime notizie sui campi di sterminio tedeschi cominciarono a diffondersi già nel 1942: erano informazioni per lo più vaghe e frammentarie, ma concordi nel delineare una strage di proporzioni così vaste e di una crudeltà così feroce che il popolo tendeva istantaneamente a negarla. A tal proposito, è significativo come questo rifiuto fosse stato ampiamente previsto dagli stessi colpevoli: molti sopravvissuti, infatti, ricordano come i membri delle SS si divertissero spesso ad ammonirli, affermando come, a prescindere dall’esito della guerra, nessuno di loro sarebbe rimasto per portare testimonianza. Se poi qualcuno accidentalmente fosse riuscito a sopravvivere, non sarebbe comunque mai stato creduto, le sue parole archiviate come il frutto corrotto della propaganda alleata. Alcuni anni più tardi, lo stesso Primo Levi si troverà a fare i conti con l’esistenza di questo fenomeno: il suo primo libro, infatti, sarà un’opera che solo a fatica riuscirà a guadagnarsi l’attenzione e i riconoscimenti di un pubblico più vasto.

`Se questo è un uomo` fu pubblicato per la prima volta a Torino nel 1947, a soli due anni dalla fine della guerra. A quei tempi il vento appariva quanto mai sfavorevole per opere come quella di Primo Levi, poiché la memoria collettiva stentava ancora a mettere a fuoco la grandezza della tragedia appena trascorsa. Di fatto, la maggioranza delle persone riteneva inopportuno riaprire ferite ancora dolenti, al punto che i sopravvissuti dovettero scontrarsi innanzitutto con il desiderio di rimozione dei loro stessi concittadini. Si trattava, d’altronde, di un sentimento naturale, come lo stesso Nietzsche aveva teorizzato: vi è infatti un tempo per dimenticare e un tempo per ricordare, un momento per lenire la violenza e un altro per rammentare le cause storiche della tragedia.
Anche fra coloro che si erano opposti con fervore ai regimi nazifascisti si respirava un’aria d’insofferenza nei confronti del dramma del popolo ebraico. Non vi era infatti nulla di eroico nella morte di tutta quella gente, e il loro immenso macello appariva come una stonatura nella partitura altrimenti perfetta del secondo conflitto mondiale. Certo, non era facile scegliere di opporre uno sguardo impietoso, volto a ritracciare una verità piena di dolore, alle storie ufficiali che ogni Stato andava tessendo a vantaggio della propria strategia politica. E questo non solo nel caso della Germania, ovviamente.

Finiti i giorni della giustizia sommaria, delle vendette personali e della violenza incontrollata, i tribunali dei paesi coinvolti, quelli che avevano visto la razzia e la deportazione del popolo ebraico, avevano emesso le proprie sentenze con grande parsimonia, tendendo sostanzialmente ad un’amnistia collettiva. Di fatto, dopo Norimberga, dei milioni di individui entrati nel cono d’ombra dei crimini nazisti rimasero solo poche centinaia di condannati, per altro con pene lievi e presto condonate. Risalire la parete della verità storica, irta di omissioni e false testimonianze, sembrava non importare davvero a nessuno: non importava di certo ai russi, interessati a propagandare la vittoria del socialismo contro il nazismo, e a nascondere con nuove retoriche un antisemitismo che era parte anche della loro storia; e non importava nemmeno agli americani, che sull’Unione Sovietica tracciavano la fisionomia del nuovo nemico, promuovendo il proprio ruolo di sentinella della democrazia nel mondo. Fu così che a coloro che in tempo di guerra si erano macchiati dei crimini più orrendi, si unirono molti altri assassini: assassini della memoria, cospiratori del silenzio, figure sparse per il globo e unite nel tentativo di impedire qualsiasi forma di giustizia riparatrice.

Era dunque assai difficile far sentire la propria voce in mezzo a quelle altisonanti della maggioranza, determinate a chiudere ad ogni costo con il passato. Primo Levi, in tal senso, appariva come un uomo mite, ma non per questo fragile o remissivo. Fu così che proprio la sua voce, sobria nel tono e fatta di poche e semplici parole, riuscì col tempo a levarsi molto in alto, grazie alla sua autorevolezza e in virtù di un’inoppugnabile chiarezza. La riflessione che essa portava con sé da allora non si sarebbe mai più fermata, attraversando indenne i decenni per raggiungere ogni angolo del globo, senza perdere per questo un briciolo della propria efficacia.
Fra tutte le opere di Primo Levi, `I sommersi e i salvati` – ovvero il libro la cui stesura fu anticipata nel ‘78 a Giorgina Arian Levi –, rimane nel ricordo collettivo come la testimonianza più pura della levatura intellettuale del suo autore, così come del suoestremo e irriducibile tentativo di capire e di spiegare. Si tratta, infatti, di una lunga arringa a favore della complessità, del rifiuto di accontentarsi di risposte semplici e della necessità di esaminare ogni lato del problema senza tralasciare gli aspetti più ambigui o terrificanti. Non a caso, Primo Levi scelse di avviare la propria inchiesta parlando di memoria, premettendo come essa possa rivelarsi «uno strumento meraviglioso ma fallace». Occorre infatti prestare molta attenzione quando si sceglie di ricordare, soprattutto nel caso di eventi particolarmente sofferti; in questi casi, infatti, la memoria è soggetta non soltanto all’usura del tempo, ma anche ai meccanismi di rimozione del trauma e del dolore.

In tal senso, per capire fino in fondo la verità sulla Shoah, uno dei nodi più difficili da sciogliere era quello riguardante l’ambiguità della vita interna ai Lager. Per Levi, infatti, radicata nell’uomo era l’abitudine a dividere il campo fra “noi” e “loro”, fra “buoni” e “cattivi”, una tendenza capace di manifestarsi non soltanto nella vita quotidiana, ma anche nel modo consueto di raccontare la Storia. Di fatto la storia popolare, così come ancora oggi viene insegnata nelle scuole, risente profondamente di questa visione manichea della realtà, per cui il fiume degli accadimenti umani viene ridotto a nient’altro che a un succedersi infinito di conflitti e di duelli: gli ateniesi contro gli spartani, i romani contro i cartaginesi, i fascisti contro i comunisti e via discorrendo. L’obiettivo, in tal senso, è sempre quello di semplificare, di rifuggire dalle mezze tinte, di dividere il Bene dal Male ripetendo il gesto di Cristo nel Giudizio Universale. È tuttavia assai raro che i fenomeni storici siano così facilmente interpretabili, e occorre dunque scavare più a fondo per coglierne appieno le dimensioni reali.

Nell’opinione di Primo Levi, in particolare, una simile operazione di scavo e di distinguo appariva tanto più necessaria quanto più complesso era il fenomeno che ci si apprestava descrivere; e nulla, ai suoi occhi, era tanto multiforme e sfuggente come la realtà all’interno di un Lager nazista, per la quale era impossibile far riferimento a semplici categorie come quelle di “vittime” o di “carnefici”. Accadeva, infatti, che da quella tempesta feroce e inesorabile finisse per emergere una schiuma grigiastra, una miscela oscura fatta di figure turpi e ambigue che, per una qualche attitudine o astuzia personale, parevano in grado di trarre vantaggio dall’intera situazione del campo. Si trattava di medici, sarti, ciabattini, ma anche di giovani attraenti omosessuali o di amici e compaesani di qualche autorità nazista, i quali, pur di sopravvivere, erano disposti a entrare nell’orbita del persecutore, nell’ambito incerto della collaborazione col nemico. Questa peculiare categoria di individui, provvisti talvolta di personalità ciniche e feroci, venne definita da Primo Levi come la “zona grigia” dei campi di concentramento.

In virtù della sua formazione scientifica, Primo Levi conosceva molto bene il significato dei colori; egli sceglieva infatti di utilizzarli in termini percettivi, a rappresentazione di un determinato stato d’animo o di un’attitudine psicologica specifica. Se il verde era dunque il colore della natura e il giallo quello della malattia e della morte, la tinta che ricorreva più spesso nell’opera dello scrittore era però il grigio. Grigio era infatti il cielo della Polonia, così come grigio era il Lager e tutto ciò che conteneva; grigia era anche la depressione, la malattia che perseguitò Primo Levi fino a condurlo alla morte. È tuttavia nella sua ultima opera che tale colore arriva ad assumere il significato simbolico più profondo, assurgendo al rango di indicatore stesso della materia antropica, «dell’azione di una umanità che vuole sopravvivere e che è disposta a qualunque compromesso pur di riuscirci».

Il capitolo de `I sommersi e i salvati` che Primo Levi dedica alla “zona grigia” è un piccolo trattato di antropologia del prigioniero, fra i più esemplari mai stati scritti; le considerazioni che lo scrittore svolge risultano infatti applicabili anche a molte situazioni della vita ordinaria, ovvero a tutti quei casi in cui decine di individui si trovano a convivere forzatamente e ad assistere all’instaurarsi di una dialettica di potere. In particolare, Primo Levi sceglie di sottolineare due aspetti fondamentali del fenomeno: quanto più ristretta è l’area del potere, tanto più esso ha bisogno di ausiliari esterni per potersi mantenere; allo stesso modo, quanto più dura è l’oppressione, tanto più diffusa è tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col nemico.
Accade così che orde di uomini grigi giungano ad accalcarsi ai piedi di sovrani e imperatori, pronti a tutto pur di ghermire la propria misera porzione di potere; essi sono spesso personaggi anonimi, miopi prima ancora che criminali, disposti a qualunque scelleratezza pur di spartirsi i brandelli di un’autorità anche moribonda. Si tratta di uno spettacolo tristemente ricorrente nella storia, come dimostrano le lotte al coltello all’interno della corte hitleriana o fra i ministri della Repubblica di Salò. Il potere, infatti, è come una droga: il suo bisogno è ignoto a chi non lo ha ancora provato, ma dopo l’iniziazione nasce la dipendenza e, con essa, la necessità di provarne dosi sempre più elevate.

In tal senso, un ordine infero qual era il nazionalsocialismo esercitava una spaventosa capacità di corruzione sugli uomini; in particolare, esso era solito a degradare le sue vittime, a farle simili a sé, per poi ottenere la complicità necessaria per poter sopravvivere. Primo Levi, in particolare, decide di soffermarsi su due casi esemplari: quello di Chaim Rumkowski, capo del ghetto di Łódź, ebreo ma fedele collaboratore dell’autorità nazista, e quello dei Soderkommando, le “Squadre Speciali” di prigionieri, a cui le SS affidavano la gestione delle camere a gas e dei forni crematori.
Fra i tanti crimini compiuti dai nazisti, quello di aver concepito e organizzato le Squadre Speciali è da considerarsi il più feroce e terrificante. Dietro l’aspetto pragmatico dell’operazione – fare economia di uomini validi e imporre ai prigionieri i compiti più atroci –, se ne scorgono alcuni ben più subdoli e infernali. Attraverso questa istituzione, infatti, l’intento era quello di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, privandole persino del sollievo di essere innocenti. Il messaggio implicito era: “Noi siamo i vostri distruttori, ma voi non siete migliori di noi; se lo vogliamo, e lo vogliamo, possiamo distruggere non solo i vostri corpi, ma anche le vostre anime”.

In tal senso, i dodici anni hitleriani furono caratterizzati da un particolare tipo di violenza, in parte sconosciuta ad altre epoche storiche: si trattava, secondo Primo Levi, di una “violenza inutile”, di una brutalità priva di scopo, sempre ridondante e sempre fuor di misura, unicamente fine a se stessa. Non a caso, molte delle violenze naziste passate alla storia sono ricordate proprio per la loro estrema “sproporzione”: basti pensare agli atroci massacri delle Fosse Ardeatine, di Oradour-sur-Glane o di Marzabotto, tutti casi in cui il limite della rappresaglia, già di per sé disumano, fu enormemente superato. Nella psicologia del Terzo Reich, infatti, la scelta migliore, quella più efficace, era quella volta a produrre la maggior afflizione possibile, il massimo spreco di sofferenza: in tal senso, il nemico non doveva soltanto essere annientato, ma doveva spegnersi nel tormento. Per il popolo ebraico, in particolare, il carico di “violenza inutile” era imposto fin dalle fasi preliminari della deportazione, ossia nella scelta delle modalità con cui i prigionieri venivano condotti presso i campi di sterminio.

Non c’è diario o racconto della memoria in cui non compaia il treno, il vagone piombato, trasformato da veicolo commerciale a prigione ambulante. In tutte le testimonianze esso è sempre stipato e soffocante, nonostante vi fosse un rozzo calcolo sul numero di persone che ogni volta dovevano esservi ammassate. Costante era comunque il consiglio di portare con sé tutto quanto fosse possibile, in particolare l’oro, i gioielli, le pellicce e, in alcuni casi, anche il bestiame minuto. «È tutta roba che vi potrà servire», veniva comunicato con un sorriso ipocrita; in realtà, si trattava di un vero e proprio auto-saccheggio, un artificio semplice e ingegnoso per trasferire valori nel Reich senza complicazioni burocratiche o trasporti speciali. Un’altra costante era la totale nudità dei vagoni. Per un viaggio che poteva durare anche settimane, le autorità tedesche non provvedevano a nulla: non vi erano né viveri né acqua, così come non vi erano recipienti per lavarsi o per espletare i propri bisogni. Non si trattava di negligenza, ma di una strategia ben precisa, mirata unicamente a infliggere dolore superfluo; l’umiliazione del treno, in tal senso, non era altro che un’anticipazione, il prologo di quella che sarebbe stata la vita all’interno del Lager.

Nel ritmo quotidiano della prigionia, infatti, l’offesa al pudore sarebbe stata per tutti un elemento essenziale. Sappiamo, ad esempio, come i prigionieri entrassero nel campo totalmente nudi, privi non soltanto degli abiti e delle scarpe, ma anche dei capelli e di tutti gli altri peli del corpo. Quella della rasatura integrale era una pratica motivata da necessità effettive, ma che risultava sempre offensiva nella sua inutile e violenta ridondanza. Un uomo nudo, infatti, percepisce se stesso come inerme, come una preda esposta a qualsiasi tipo di pericolo; senza la protezione tenue ma essenziale degli abiti, egli si sente al pari di un lombrico, lento e prono al suolo, pronto per essere schiacciato da chiunque in qualsiasi momento.

Anche la violenza del tatuaggio appariva totalmente fine a se stessa. Ai gerarchi nazisti non bastavano infatti le cifre cucite sui pantaloni o sulla casacca per identificare i prigionieri – no, era necessario trasformare quei numeri in un messaggio, in una condanna, in un marchio indelebile inciso a fuoco sulla carne stessa dell’individuo. Si trattava di un ritorno allo stato barbarico, alla condizione primitiva propria degli schiavi o degli animali da macello, la quale risultava tanto più conturbate per gli ebrei ortodossi, in quanto la legge mosaica vieta severamente di portare tatuaggi sul corpo.
Nella chiave interpretativa che vede la “violenza inutile” come il leitmotiv della vita concentrazionaria arrivano ad assumere un significato ben preciso anche tante altre pratiche a noi note, come la volontà di sottoporre i prigionieri a un lavoro costante ed estenuante o l’uccidere i vecchi e i bambini nelle camere a gas. Tutte queste sofferenze, infatti, non erano altro che lo svolgimento di un unico tema – quello del presunto diritto del popolo superiore ad asservire ed eliminare il popolo inferiore –, il quale, a sua volta, faceva capo alla cosiddetta “tradizione del Drill”, ovvero la feroce pratica marziale eredità dell’epoca prussiana.

A tal proposito, è interessante osservare come, in molti dei suoi aspetti più assurdi e terrificanti, il mondo del Lager apparisse come l’esatta caricatura della prassi militare tedesca, al punto che le truppe di prigionieri erano chiamate ad impersonare una copia ingloriosa di quelle ufficiali. È noto, ad esempio, come ogni esercito debba possedere una propria divisa – ma tanto pulita e onorata doveva essere l’uniforme nazista, quanto lurida, muta e grigia era quella data in dotazione agli Häftling. Un esercito, poi, è solito a sfilare al passo militare, al suono di una banda e in ordine chiuso; anche il Lager, dunque, doveva possedere una propria banda, e la sfilata dei prigionieri doveva essere compiuta a regola d’arte, a suon di musica, con l’attenti a sinistr e a destr svolti davanti al palco delle autorità.

La crudeltà inutile, in realtà, non fu retaggio solo del Terzo Reich, dal momento che anche la Cambogia di Pol Pot o altri regimi ne offrirono numerose e altrettanto drammatiche testimonianze; essa, tuttavia, fu senza dubbio uno degli elementi fondanti dell’hitlerismo, la base sostanziale del suo successo e della sua capacità distruttiva. Da questo punto di vista, i prigionieri sopravvissuti non avevano nulla di cui doversi vergognare, poiché quanto avevano vissuto o sopportato non era in alcun modo imputabile a una loro scelta consapevole. Eppure, la vergogna continuava a perdurare, feroce e inestinguibile, soprattutto davanti ai pochi e lucidi esempi di chi di resistere aveva avuto la forza o la possibilità.
Accadde così che, all’uscita dal buio, molti ex-deportati si trovarono a soffrire atrocemente proprio per la consapevolezza di essere stati menomati. Essi avevano vissuto per mesi o per anni a un livello di sopravvivenza animalesca: le loro giornate erano state ingombrate solamente dalla fame, dalla fatica e dal freddo, mentre avevano sopportato la sporcizia, la promiscuità e la destituzione soffrendone assai meno di quanto sarebbe stato lecito. Tutti avevano rubato: dalle cucine, dalla fabbrica, dal campo, arrivando in alcuni a casi a sottrarre persino il pane del proprio compagno. Avevano dimenticato quello che era stato il loro paese e la loro cultura, ma anche i volti di familiari e amici, poiché come gli animali si erano ridotti a vivere per il solo momento presente. Da questa condizione di annichilimento era stato possibile uscire solo a rari intervalli, come nelle sporadiche domeniche di riposo o negli attimi fugaci prima del sopraggiungere del sonno; si trattava, tuttavia, di momenti di dolorosa consapevolezza, tali da far toccare con mano la misura della propria diminuzione.

Per Primo Levi la “colpa” di essere vivo di fronte a milioni di morti era qualcosa di pesante, talvolta insopportabile. Egli era consapevole che chi non era stato “sommerso”, chi aveva evitato di toccare il fondo per caso o per una qualche forma di privilegio, sarebbe stato guardato sempre con sospetto e solo parzialmente avrebbe potuto contribuire alla ricostruzione della verità. I “salvati” del Lager, infatti, non erano stati necessariamente gli uomini migliori, i predestinati al bene o i latori di un messaggio universale; al contrario, essi spesso avevano fatto parte del “gruppo dei peggiori”, quello degli egoisti, dei violenti e delle spie, abitanti quella “zona grigia” di cui egli aveva così lucidamente delineato i contorni. Dal canto suo, Primo Levi si sentiva sì innocente, ma anche intruppato nel gruppo dei “salvati”, e dunque chiamato a esibire costantemente un motivo per giustificare a sé e agli altri le ragioni della propria sopravvivenza.

Da questo punto di vista, ciò che Primo Levi condivise con molti altri sopravvissuti fu l’irrimediabilità dell’esperienza vissuta, la profondità di una ferita morale quasi impossibile da rimarginare. La gratuità della violenza subita, il senso di colpa e l’infinita umiliazione rappresentavano infatti un crepaccio difficile da risalire, e che molti non riuscirono mai veramente a superare. A questo proposito, non c’era polemica fra Primo Levi e Jean Améry, lo scrittore austriaco che, dopo essere stato arrestato e torturato dalla Gestapo, fu deportato ad Auschwitz, Buchenwald e Bergen-Belsen. Le parole di Améry, infatti, dicevano qualcosa di vero anche per Levi: «Chi è stato torturato rimane torturato […] Chi ha subito il tormento non potrà mai più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento non si estingue mai».
L’indecenza della sopraffazione, la colpa di chi ha ordito crimini contro l’umanità, in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo si trovasse, risiede proprio in questo: le vittime, anche se scampate alla morte, non sarebbero più tornate ad essere le stesse; in loro sarebbe rimasto per sempre il ricordo dell’orrore e, con esso, la consapevolezza di avviarsi a una lenta e inesorabile scomparsa. L’angoscia incurabile di questa condizione era ben presente anche in Primo Levi e motivava la sua voglia di verità e di testimonianza, la sua instancabile ricerca di una spiegazione. Tale inquietudine, tuttavia, era sempre pronta a riemergere, a tornare i superficie, a riaffacciarsi per ghermire e offendere quello spirito così forte e generoso. Un giorno, infatti, proprio quell’angoscia ritornò, bruciante e inesorabile, e riuscì davvero a trascinare Primo Levi via con sé. [Continua a pagina 2 – Clicca qui!]
[1] «Da quel momento, a un’ora imprecisa, / quell’agonia mi torna: / e fino a che non ho detto la mia storia di morti, / dentro mi brucia il cuore». –`La ballata del vecchio marinaio` (1798), Samuel T. Coleridge (trad. Beppe Fenoglio)