`I sommersi e i salvati` di Primo Levi • La memoria dell’offesa

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L’estate del 1986, l’ultima che Primo Levi avrebbe vissuto, fu segnata dal dolore e dalla malattia. Come in passato, infatti, lo scrittore si trovò a soffrire atrocemente a causa del Fuoco di Sant’Antonio, che lo portò a sviluppare penose ulcerazioni sul petto e sui piedi. Nel frattempo, `I sommersi e i salvati` era già uscito nelle librerie, ma mai come allora Levi si era sentito insicuro del proprio talento e delle proprie capacità letterarie. Incerto sul da farsi, egli aveva dunque deciso di distrarsi, accettando di giudicare un premio letterario e uscendo di casa ogni volta gli fosse possibile.     

Fu nel maggio di quell’anno che Ferdinando Camon si recò a Torino, allo scopo di intervistare ancora una volta l’amico scrittore. In quell’occasione, al termine di una lunga e intensa conversazione, Camon fece notare a Levi quanto fosse unico il suo atteggiamento, sempre sorridente, ironico e comprensivo, mai prono all’insofferenza o al rancore. «Ho l’impressione» disse, «che lei sia, per natura, uno che ama la vita, che l’amava prima, che l’ama dopo. Tra il prima e il dopo c’è stato un trauma violento e totale, ma concluso». «In generale è così» fu la risposta di Primo Levi, che tuttavia aggiunse: «Ho avuto, dopo la prigionia, alcuni episodi di crisi depressive. Ma non sono sicuro che si ricolleghino a quell’esperienza, perché hanno delle etichette diverse di volta in volta». A ben vedere, non sono molti i momenti in cui Levi abbia accettato di parlare del proprio stato mentale, in particolare della propria depressione; perfino nella sua opera non si trovano citazioni esplicite in tal senso, e ogni allusione al suo umore è necessariamente da riferire a un tempo passato. Eppure, Primo Levi soffriva e aveva sempre sofferto di un’atroce e oscura depressione, una patologia subdola e meschina, che proprio in quei mesi tornava ad affliggerlo più ferocemente che mai.

In tal senso, le testimonianze riguardanti l’ultimo anno di vita di Primo Levi rivelano il ritratto di un uomo stanco e provato, in equilibrio estremo sul ciglio del baratro. Pareva che un inarrestabile “grigiore” stesse per prendere il sopravvento sulla sua vita, una negatività schiacciante capace di esprimersi in eccessi di disperazione. Col senno di poi, tutto questo appare come un chiaro segnale di ciò che di lì a poco sarebbe accaduto; eppure, nessuno dei parenti o degli amici dell’epoca arrivò mai a pensare che egli potesse togliersi la vita. Come molti malati di depressione, infatti, Primo Levi aveva imparato a presentare un volto “normale” all’esterno, una maschera di tranquillità in contrasto con i reali tormenti della mente. Inoltre, per sviare i sospetti, egli finiva per attribuire alla madre le ragioni del proprio dolore: Ester Levi, infatti, era appena stata dimessa dall’ospedale e, confinata su una sedia a rotelle, esigeva di tutte le attenzioni del figlio.

Com’era evidente, il peso della malattia della madre cresceva di giorno in giorno, tanto da sommergere Primo Levi completamente. L’unica scrittura che gli era ancora concessa avveniva nell’oscurità della sua stanza, sopra un taccuino, in cui finiva per annotare tutte le esigenze di Ester e il lavoro che ella necessitava dal suo letto di dolore. Giunto al culmine della sopportazione, carico di delusioni e di sentimenti di inutilità, il 19 febbraio Levi scrisse all’amica Ruth Feldman: «Sto attraversano il mio momento peggiore dopo Auschwitz: per certi aspetti è anche peggio di Auschwitz, poiché non sono più giovane e ho scarsa capacità di recupero. Mia moglie è esausta. Ti prego di perdonare questo sfogo, so che capirai… De profundis». Rileggendo oggi queste parole è facile immaginare come, arrivato a quel punto, anche il semplice alzarsi da letto fosse per lo scrittore qualcosa di assai difficile da affrontare.

Per la maggior parte dei torinesi l’11 aprile 1987 era un semplice sabato mattina di primavera, l’aria leggera e frizzantina, nel cielo il lucore tenue del sole del Nord. Primo Levi si era da poco svegliato nell’appartamento di Corso Re Umberto, dove da tempo viveva con la moglie Lucia, la madre Ester e l’infermiera Elena Giordanino, da nove mesi in servizio presso la famiglia. Alle 9:30 Lucia era uscita per fare alcune compere in centro, progettando di tornare a casa nel giro di un’ora. Rimasto solo con la madre, invece, Primo Levi aveva deciso di comporre il numero di telefono del Rabbino Capo di Roma, Elio Toaff, certo di trovarlo presso la propria abitazione.

Levi, com’è noto, non era un uomo religioso, ma pareva comunque strano che decidesse di disturbare un rabbino il giorno del Sabbath ebraico. Qualcosa evidentemente non andava. Infatti, appena Toaff rispose, egli esclamò con voce angosciosa: «Non so come andare avanti. Mia madre ha il cancro, e ogni volta che la guardo mi tornano in mente le facce degli uomini stesi nelle cuccette di Auschwitz». Purtroppo, la chiamata non sortì alcun effetto, tanto che Toaff da quel giorno iniziò a soffrire di atroci sensi di colpa, consapevole di non essere riuscito a cogliere i segni di una sofferenza profonda. Appena riattaccato il telefono, infatti, Primo Levi uscì sul pianerottolo di casa e si gettò dal parapetto delle scale, cadendo nel vuoto per un’altezza di tre piani. A ritrovarlo, riverso senza vita all’entrata dell’edificio, furono la portinaia e la moglie Lucia: «No! Ha fatto quello che ha sempre detto che avrebbe fatto!».

L’abisso in cui Primo Levi aveva deciso di precipitare era la tromba delle scale del palazzo in cui aveva vissuto per tutta la vita. A eccezione dell’anno trascorso a Milano e del periodo passato ad Auschwitz, infatti, lo scrittore aveva abitato in quel luogo per ben sessantasette anni, guardando ogni giorno al di là del parapetto nell’atto di lasciare il proprio appartamento e di scendere per le scale a spirale.

Oggi come allora, l’edificio di Corso Re Umberto appare comeun comune palazzo borghese, situato lungo una via che conduce verso il centro di Torino senza tuttavia mai raggiungerlo. Ad abitare lì intorno è la classe media della città sabauda, quella delle professioni e dei mestieri, la cui caratteristica principale è la riservatezza, una discrezione fatta di quieto vivere e pacatezza, tramandata con costanza di generazione in generazione. Al momento della sua morte tutto dentro la casa di Levi sembrava essere rimasto fermo nel tempo, tanto le abitudini quanto gli oggetti. Sappiamo, ad esempio, come sulla porta d’ingresso per anni avesse penzolato una grossa chiave «di cui tutti avevano dimenticato la destinazione», ma che nessuno aveva mai osato gettare via. Della propria abitazione, infatti, Primo Levi aveva descritto gli angoli e i particolari più minuti, un insieme di rifugi e di nascondigli a cui non aveva chiesto altro che «spazio, calore, comodità, silenzio, privatezza». Ed è proprio dentro quel “guscio” di calma e discrezione che Primo Levi aveva deciso di morire, lasciandosi cadere nel vuoto di un calmo mattino di aprile. 

Quando qualcuno decide di togliersi la vita ci sono sempre due versioni del fatto: quello vero e quello che la gente pensa di conoscere. Tutti i suicidi, specialmente se inaspettati, tendono infatti a condurre verso false piste e ipotesi ancor più stravaganti e, in tal senso, la morte di Primo Levi non fece alcuna eccezione. Rapporti di esperti, inchieste e controinchieste si susseguirono per mesi, al fine di dipanare le ragioni un mistero che non era tale e di una scomparsa che nessuno sembrava avere la forza di accettare. Certe interpretazioni si rivelarono quanto mai grottesche, per cui alcuni arrivarono a parlare di manie di persecuzione, altri ancora di presunte minacce neo-fasciste. L’ipotesi senza dubbio più bizzarra fu quella di Gesualdo Bufalino, il quale giunse a sostenere come Primo Levi si fosse suicidato dopo aver visto `L’inquilino del terzo piano` di Roman Polanski, film in cui un ebreo franco-polacco di nome Trelkovski decide di uccidersi gettandosi dalla finestra di un appartamento parigino. Nell’interpretazione di Bufalino, dunque, la scelta di Primo Levi non era stata altro che una suggestione, un puro «gesto imitativo».

Fu tuttavia la versione “romantica, quella meta-letteraria, l’ipotesi che più di tutte arrivò a incidersi nella memoria collettiva: secondo molti, infatti, Primo Levi si era suicidato perché Auschwitz era giunta a reclamarlo a sé. “Schiacciato dal fantasma dei Lager”, titolò il Corriere della Sera; “Salvato ma sommerso”, scrisse qualcun altro. Natalia Ginzburg non mostrò alcun dubbio in proposito: «Fu il ricordo di quegli anni a condurlo alla morte». Stessa teoria fu sostenuta con forza anche da Alberto Moravia, sebbene egli non avesse mai conosciuto Levi, avendolo incontrato solo una volta, e brevemente, nel 1963. Lo stesso figlio dello scrittore, Renzo, parve avvallare tale ipotesi quando disse ai giornalisti: «Leggete l’ultima pagina della `Tregua`, è tutto scritto lì»; in quelle righe, infatti, Primo Levi narrava di un sogno ricorrente, in cui si trovava di nuovo ad Auschwitz e scopriva come nulla fosse più vero all’infuori del Lager. Dal tono irritato del commento, tuttavia, è probabile che Renzo Levi volesse semplicemente liquidare i cronisti dando loro ciò che volevano, al punto da esclamare poco dopo: «Abbiate un po’ di rispetto!».

Per quanto ci riguarda, possiamo solo speculare sul fatto che la depressione di Primo Levi si fosse aggravata a causa del suo terribile passato, o che essa avesse avuto origine la notte in cui egli vide per la prima volta la scritta “Arbeit Macht Frei”. A questo proposito, il libraio Angelo Pezzana fu forse quello che più si avvicinò alla verità quando disse: «Primo non si uccise né per sua madre né per Auschwitz: era qualcosa che covava nel profondo». Per quando doloroso possa essere, infatti, la sola cosa di cui possiamo essere certi è che fu la depressione a uccidere Primo Levi, una malattia terribile e meschina che in quei mesi arrivò a inasprirsi a causa di una serie di fattori: la patologia della madre, la paura di divenire incapace di intendere e di volere, l’ondata di revisionismo a cui il mondo sembrava andare incontro. Cercare di dare una spiegazione univoca a ciò che è accaduto, collocandone le radici nell’esperienza della Shoah, non aiuta affatto a risolvere il mistero. La verità, infatti, è che le cause reali di un suicidio sono sempre sfuggenti, poiché la sofferenza di chi sceglie di togliersi la vita è oltremodo privata e inaccessibile, ed è un’ulteriore violenza pensare di poterla esporre o indagare in qualsiasi modo.

In ogni caso, al di là dal clamore mediatico suscitato dalla sua morte, nel giro di pochi mesi Primo Levi iniziò ad essere commemorato e celebrato in tutt’Italia, il suo nome utilizzato per battezzare decine di piazze, strade e scuole. La sua memoria, infatti, continuava a resistere altrove, nei ricordi di chi lo aveva conosciuto e fra le righe di una scrittura ineguagliabile. Come disse Livio Norzi, uno dei suoi più vecchi e cari amici, se occorreva trovare una fonte di consolazione per la scomparsa di Levi questa risiedeva proprio nell’essenza stessa della sua opera letteraria, «un monumento più duraturo del bronzo». Non possiamo infatti dimenticare come Primo Levi, prima ancora di essere un sopravvissuto, fosse innanzitutto un uomo e uno scrittore eccezionale, oltre che un grandissimo autore di storia. È assai raro che tutte queste condizioni arrivino a coincidere, e che tale coincidenza si realizzi all’interno di una personalità così multiforme, capace di scindersi per tutta la vita fra il lavoro di chimico e un’attività di scrittura densa di memoria e di poesia.

Le vicende della Shoah sono state giudicate da molti incomprensibili e irraccontabili, pari aepisodi estremi di un’oscura traiettoria biblica. Parlandoci di esse, tuttavia, Primo Levi ha sempre cercato di esercitare al massimo le doti del buono storico, fossero esse l’imparzialità o la serenità, il controllo sui ricordi o sulla razionalità delle proprie tesi. Grazie alle sue pagine, infatti, persecutori e vittime hanno saputo ritrovare le proprie sembianze umane, mentre un’esperienza estrema ha perso i contorni dell’eccezionalità, dimostrando come il baratro possa tornare ad aprirsi in qualsiasi momento. Non occorrono, infatti, circostanze straordinarie affinché Auschwitz possa ripetersi: basta una realtà fatta di atteggiamenti conformisti e zelanti, edificata su espressioni di egoismo e di becero orgoglio identitario, nutrita dalla deferenza e dalla sottomissione nei confronti dell’autorità più immonda.

Leggendo oggi l’opera di Primo Levi si viene colti da molti sentimenti: quelli che, non occorre dirlo, provoca il volgere la mente a ciò che accaduto e che, insiste l’autore, può sempre tornare ad accadere; ma anche quelli suscitati dal confronto con il pensiero di un grande intellettuale – e dunque l’ammirazione di fronte all’onestà e alla chiarezza mentale, lo stupore rispetto a una capacità di scrittura e di argomentazione profonda, la gratitudine nei confronti di un uomo che, dopo aver vissuto il buio, ha saputo raccontarlo con tanta acuta e dolorosa precisione. È così che, a prescindere dalle ragioni della sua scomparsa, possiamo dire come Primo Levi abbia saputo, prima e più di tutti, resistere alla potenza risucchiante di Auschwitz: egli ha impedito all’orrore di distruggere la propria ragione, ha vietato alla rabbia di compromettere la purezza dei propri sentimenti e – cosa ancora più ammirabile – ha proibito alla Storia di far arretrare la propria incrollabile fiducia verso la vita e l’umanità.

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